A Parma – città simbolo del sindacalismo rivoluzionario – una serie di scioperi nel 1907 fece sì che i proprietari terrieri – nella fattispecie, quelli dell’Associazione Agraria – concedessero ai braccianti del parmense e di altre province vicine degli accordi favorevoli alla loro condizione da lavoratori (concernenti l’orario di lavoro, la condizione, la retribuzione, ecc., ecc.). Il tutto, portava la firma dell’illustre sindacalista Alceste De Ambris, il quale era a capo della Camera del Lavoro della città.
Gli agrari, però, nel 1908 rifiutarono di prestare fede all’accordo da loro stessi firmato, e decisero di ristabilire le normative – con tanto di inasprimento delle pene nel caso in cui gli operai
avessero mosso questa o quella volontà – antecedenti al “trattato”. Ciò, fu l’esplosione di un sentimento di rivalsa proletaria al quale già dei precedenti scioperi – di più piccola misura – avevano fatto da apripista. Difatti, il 30 aprile la CdL di Parma lanciò lo sciopero da attuarsi il I maggio, giorno simbolico
per i lavoratori.
L’eco dello sciopero raggiunse Filippo Corridoni a Nizza, il quale fece clandestinamente rientro in Italia, a Parma, il 3 maggio dello stesso anno, sotto il falso nome di Leo Celvisio; in questa città «[…] la vita di Corridoni conosce una svolta data dalla conoscenza con Alceste De Ambris, con cui inaugura un rapporto di forte ed affettuosa amicizia.».
Si unì subito allo scontro, e si fece strada tra il proletariato di città e provincia, distinguendosi per le sue doti di agitatore ed organizzatore. Gli agrari passarono alla controffensiva, richiedendo l’aiuto dell’Esercito che, ancora una volta, rese ancora più complicata l’attuazione delle pretese sindacal-rivoluzionarie. Significativo fu anche l’arrivo dei cosiddetti “crumiri” – circa 4.000 – assoldati e foraggiati dall’Associazione Agraria, contro i quali il nostro, dalle colonne de’ “L’Internazionale” – organo della CdL di Parma, da poco ivi trasferitosi – si scagliò fortemente, con parole dure e risolute, in un articolo intitolato “Il Krumiro, studio fisiologico e psicologico”: «Il Krumiro di professione siede nell’ultimo scalino della razza umana. È un qualche cosa che si dissimila appena dalla bestia da soma; che ha della bestia da soma tutti gli istinti, tutti i difetti, senza una sola delle rilevantissime virtù. Il krumiro è, più che un abbruttito, un non evoluto. Per i krumiri dilettanti, poche parole ho da spendere. Tutti conoscono. Sono gli studentelli [che] han
sbagliato carriera, i professionisti mancati; le zitellone in cerca di un qualsiasi marito. I lavoratori che non hanno lavorato mai: i bari, gli sbirri, le spie, i cornuti, i ladri, i manutengoli, gli scassinatori, i ruffiani; le verginelle ipotetiche o rientrate, le isteriche, le eroine da marciapiede; i piccoli proprietari leccapiedi dell’alta proprietà; gli indebitati ed altri tipi della stessa specie. Qual è il loro filo di unione?
La delinquenza nelle sue forme più svariate.»
La lotta tra la popolazione bracciantile e il padronato – appoggiato, è bene ricordarlo, dalle forze dell’ordine – proseguì in estate, ma la forza della coalizione anti-sindacale riuscì ad ultimare l’assedio e l’occupazione della CdL, costringendo Alceste De Ambris alla fuga in Svizzera. Ciononostante, Filippo Corridoni restò con i lavoratori, seppur la sconfitta fosse vicina.
Così avvenne: lo strapotere latifondista riuscì a schiacciare la forza scioperante, ma per il movimento sindacalista fu una vittoria, sudata ma importante – al fine di espandere il proprio eco in tutta la penisola. Ciò, perché «aveva aumentato enormemente il grado di maturazione e di consapevolezza del proletariato padano», grazie a tutta una serie di azioni d’aiuto che intercorsero tra gli scioperanti, privi di salario. Verso fine agosto fu riconosciuto dalla polizia e per evitare l’arresto, optò nuovamente per l’esilio, scegliendo come destinazione la città di Zurigo, in Svizzera. Grazie ad un’amnistia di Vittorio Emanuele III furbamente studiata ad hoc per evitare rappresaglie da parte della classe operaia, Corridoni, bisognoso di cure, rientrò in Italia, dirigendosi, dapprima, nella sua città natale – ove resterà fino a marzo -, poi a Milano – fino a maggio -, a Bologna, per partecipare al Congresso Nazionale dell’Azione Diretta (9/10 maggio) e infine nel modenese e dintorni. In questa zona, forte di numerose aspettative, il 15 maggio riesce ad assumere la direzione della Camera del Lavoro di San Felice sul Panaro, provando ad effettuare un’azione di sintesi tra l’ala riformista del proletariato e quella rivoluzionaria, con l’intento di far prevalere quest’ultima.
Ad agosto partecipò al congresso camera, per mezzo del quale riuscì a far passare la proposta contenente la fusione delle due Camere della zona di San Felice. Ma la sua lotta, nel modenese, non è solo sul piano sindacale, ma si sposta leggermente, accentuando l’azione anti-clericale. Da poco nella cittadina di Mirandola erano nate le prime associazioni politiche e sociali di stampo cattolico, in reazione alle Leghe Rosse, e tutto ciò ai sindacalisti della zona non scese. Un altro evento – però – acuì notevolmente la rabbia di Corridoni: la morte dell’anarchico ed anti-clericale spagnolo Francisco Ferrer per mano del governo
reazionario e ultra-cattolico. Difatti il 17 ottobre (sempre del 1909). Egli, insieme ad altri suoi compagni, pose in essere una violenta protesta, e fece irruzione in una Chiesa durante una pratica religiosa. Per questo fu nuovamente arrestato e condannato – ‘stavolta – a quattro mesi di reclusione.
Nel gennaio del 1911 si recò nuovamente a Milano per il proseguimento dell’azione rivoluzionaria, ma con un importante capovolgimento di fronte nei meriti del diretto soggetto della lotta sindacalista: infatti, abbandonò la pretesa che il bracciantato potesse portare avanti il conflitto contro la borghesia, in quanto immaturo, e suggellò la classe operaia come vero ed unico soggetto della rivoluzione. Propose un nuovo
modello organizzativo del sindacato, tant’è che «Sul giornale “La Conquista”, come nelle riunioni sindacali, sostiene la necessità di organizzare i sindacati sulla base dell’appartenenza all’unità produttiva e non sulla base della qualifica lavorativa: di fatto, pone in essere un modello innovativo di organizzazione sindacale e di relazioni industriali.».