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Di Andrea Falco Profili

Di Karl Otto Paetel restano oggi solo le ceneri – o, per meglio dire, le ossa polverizzate – di un’idea che volle farsi fiamma: il Nazionalbolscevismo. Ideato nelle viscere di una Germania spezzata, postbellica, e lacerata dalla ricerca di un destino sottrattogli, il suo pensiero ci lascia una domanda necessaria: cosa rimane vivo, oggi, di quell’idea? Se accettiamo di ragionarci e prendiamo Paetel sul serio – e non è mai un’operazione per cuori deboli – scopriamo due strade, e solo due: distinguere fra esse è questione di vita o di morte.

Ma chi è Paetel, questo ideologo enigmatico e inaccessibile? Certamente nessun neofita della politica può sperare di iniziarsi ad esso senza bruciarsi le ali: il suo pensiero, per quanto ancorato al XX secolo, rimane complesso anche per noi, figli di un XXI secolo ipersemplificato. Nato nel 1906, Paetel non crebbe: fu forgiato – a fuoco e martello – in un’epoca di rovine. Il primo dopoguerra non fu per lui un semplice capitolo storico, ma l’implosione di un destino: il collasso delle certezze imperiali, il naufragio del sogno guglielmino, la disfatta di Versailles, dove la Germania fu umiliata ritualisticamente, e Paetel, osservatore lucido, non poteva che vederlo per ciò che era.

E poi, Weimar: quella Germania che tentava goffamente di vivere mentre moriva di esterofilia, di crisi valoriale, di prostrazione agli interessi stranieri – qui, il parallelo con l’Italia contemporanea è comandato. In questo contesto, Paetel gettò una sfida, una visione creativa e iconoclasta pronta a far gelare il sangue ai sacerdoti dell’ideologia: un nazionalismo rivoluzionario che galvanizzasse una nazione preda di una crisi non solo socioeconomica, ma antropologica. Non il nazionalismo vuoto del conservatorismo borghese, né la religione del bolscevismo che, creativa in Russia, ha creato solo emuli a ricasco in occidente. Invece, osò pensare una sintesi: una rivoluzione, una lotta di popolo che fosse sia diretta alla giustizia sociale che al riscatto nazionale, senza cedere il passo a ingerenze di alcun tipo, economiche, politiche o culturali.

Il Nazionalbolscevismo di Paetel in un’epoca di barricate mirava ad unire il popolo per renderlo sovrano. Per comprendere le tensioni che navigava, bisogna immergersi nel miasma della Repubblica di Weimar: veterani disillusi, socialisti emergenti, un sistema che pareva più una zattera alla deriva che una repubblica. Karl Otto Paetel allora, non si accontentò di scegliere un lato della barricata: cercò di annullarla, superarla, liquefare tutto ciò che produceva di caricaturale per unire nell’essenza.

Vitalità della prassi

Tra le intuizioni più visionarie – e vitali – di Karl Otto Paetel, spicca la visione per cui un movimento autenticamente rivoluzionario, debba porre al centro la questione nazionale. E se oggi il termine “nazionalbolscevismo” ha un ché di esotico, persino delirante, bisogna guardare oltre le apparenze: ciò che ci offre è profondamente radicato nel reale. Perché, senza la questione nazionale, ogni rivoluzione sociale si svuota, si riduce a mero accademismo, incapace di affondare le sue radici nel popolo che vorrebbe rappresentare. La nazione non è un orpello retorico: è carne, sangue, ossa di un’identità politica viva, sentita, incarnata.

Viviamo un’epoca che sembra sputare sulla parola identità: globalizzazione e crisi degli universi simbolici nazionali procedono a braccetto, come una macchina molatrice che macina popoli e culture per farne poltiglia utile solo al mercato. La liquefazione delle identità nazionali non è accidentale, è un processo calcolato, una leva del potere economico. In questo scenario, alzare ancora il vessillo del vecchio mantra vetero-marxista – “il nazionalismo è una distrazione borghese” – è puro suicidio, sia intellettuale che politico. Occorre seguire invece un’altra strada: una sintesi che restituisca al popolo non solo una voce, ma un universo simbolico capace di unire le sue molteplici anime, cementandole in un unico movimento. Una rivoluzione che spezzi le categorie prefabbricate dall’ordine liberale – finanza e “patriottismo” da un lato, socialismo e cosmopolitismo dall’altro – per creare un’alternativa reale, che superi questa dialettica nefanda.

Il pensiero nazionalbolscevico ha il potenziale di riemergere per la sua spudorata attualità. Il nazionalbolscevismo, se inteso non come mera provocazione storico-estetica, ma come una direzione per costruire un movimento politico capace di analisi radicale e risposta reale, rimane un arsenale di strumenti attualissimi. La rivoluzione che immagina non si limita ad imitare modelli d’importazione: è un invito a creare qualcosa di organico. Ed è qui, tra il liberalismo globalizzato e il patriottismo conservatore, che il pensiero nazional rivoluzionario arde la sterpaglia e propone qualcosa di così autenticamente rivoluzionario da essere temuto più di qualunque altro pensiero oggi abbia la sfacciataggine di dirsi scomodo.

Morte dell’estetica

C’è però un nodo dolente che serpeggia in certe riletture contemporanee del nazionalbolscevismo: la componente estetico-militante, che anziché esserne forza viva ne è puramente zavorra. L’insistenza su simbolismi, emblemi, richiami estetici provocatori sembra oggi più una prigione che un vero strumento. In un mondo in cui le masse hanno perso il legame immediato con quei simboli, insistervi è più che anacronistico: è alienante, persino dannoso.

Perché, diciamolo chiaramente, l’estetizzazione dell’ideologia non unisce: divide. Quel che Paetel voleva costruire – ponti, alleanze, un movimento di popolo – rischia di sgretolarsi quando il movimento si chiude in un’estetica da cabaret politico, da gioco di ruolo dal vivo (vedi Live Action RolePlay, o LARP) che parla più al gusto di pochi che alla realtà di molti. Definirsi oggi “nazionalbolscevico”, diffondere simbolismi frankenstein, equivale a proclamarsi controcorrente senza sapere in che direzione scorra il fiume. Il rischio è quello di diventare un’isola antisociale, un club elitario incapace di dialogare con i bisogni reali della popolazione.

Questa estetica non è solo antiquata, ma letalmente autoreferenziale. Si muove come un teatro dell’assurdo, dove simboli e retoriche non evocano concretezza, ma alienano chi, forse, avrebbe risposto alla sostanza. Perché il popolo – quello vero – non mastica facilmente la politica, figuriamoci un simbolismo che sembra uscito da un film di cattivi in bianco e nero. Questa estetica non trasmette appartenenza; trasmette caricatura. E in un mondo che cambia con velocità fulminante, l’incapacità di adattarsi è una sentenza di morte politica.

Karl Otto, è certo, non avrebbe tollerato nulla di tutto questo. Il suo nazionalbolscevismo non era un vezzo estetico o una provocazione per il gusto di esserlo: era un ponte, un progetto per unire ciò che sembrava inconciliabile. L’idea originaria era pragmatica, concreta, radicata in un contesto storico. Rifugiarsi oggi nel simbolismo novecentesco significa tradire questa visione, non interpretarla. Significa scivolare nella contraddizione, abbracciare quel settarismo che è l’opposto del senso originario del movimento. La politica, oggi, richiede elasticità, capacità di rispondere ai bisogni di un mondo il cui universo simbolico è certamente diverso da quello del Novecento.

Attualità e sfide per il domani

Per rimanere vivo, il pensiero nazionalbolscevico ha bisogno di una chirurgica contestualizzazione storica, di una setacciatura rigorosa. Oggi, nell’Italia del XXI secolo, schiava di trattati ignominiosi, inginocchiata a una classe politica melliflua, esterofila e smarrita, martoriata da un disordine sociale che ribolle sotto la superficie, le similarità con Weimar non sono solo una suggestione storica: sono un monito. È proprio qui che questo pensiero rivoluzionario, se inteso come forza per unire il popolo in un ampio movimento legato da un programma sociale e nazionale, torna a pulsare di vitalità incandescente.

Invece, rottamare simboli, estetiche e aggettivi senza comprendere la lezione profonda degli ultimi decenni è un atto di miopia storica. Non si tratta di rifare ciò che è stato, ma di portare avanti un’intuizione: un nazionalbolscevismo negli intenti, nelle fondamenta programmatiche. Un pensiero che osi sfidare le forze della finanza, dell’usura, del debito strutturale, per rimettere al centro tre assi cardinali: il lavoro, la sovranità della nazione e la difesa di un’identità che rischia di liquefarsi nel magma globale.

Oggi serve un socialismo nuovo, non un riciclo stantio di esperimenti importati, falliti o sopravviventi. Serve un socialismo capace di condensare i migliori animi di un’eterogenea composizione nazionale, di unire ciò che pare disgregato o troppo diverso in un programma unico, disegnato sulle specificità del contesto italiano. Un socialismo che sia davvero radicato, locale, italico.