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La Reggenza Italiana del Carnaro fu il primo stato a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica.

Il 12 settembre del 1919 la spedizione guidata da Gabriele D’Annunzio raggiunse Fiume. Ad un esame superficiale del “fiumanesimo” si resta subito colpiti dalla stretta affinità fra il suo apparato liturgico-estetico e quello del fascismo. A questo punto buona parte della storiografia italiana decide quindi che può bastare così, e si volge altrove lasciando ai soli fascisti il compito di sentirsi eredi dell’epopea fiumana. Eppure, la Reggenza fu il primo stato a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica.

Non tanto alla critica liberale esemplificata da un Vivarelli, quanto a quella più marcatamente “di sinistra” può essere imputato il mancato approfondimento delle dinamiche di quel vero e proprio “teatro sperimentale della rivoluzione” che fu la Fiume dannunziana. L’impresa fiumana, lungi dal confondersi col fascismo, fu infatti il lascito dell’assai più vasto fenomeno politico dell’interventismo italiano.

Di D’Annunzio si fidavano i nazionalisti, di fede monarchica e piglio aggressivo-militarista, che lo seguirono a Fiume il 12 settembre 1919 per rivendicare con le armi una città che era stata esclusa dalle clausole del Patto di Londra benché fosse abitata in maggioranza da italiani. Del Comandante si fidavano però anche coloro che possiamo definire “avversari” dei nazionalisti, perché la causa interventista l’avevano sposata da ben altra prospettiva rispetto allo stolido, miope, guerrafondaio paradigma del nazionalismo votato alla sopraffazione degli altri popoli e sorretto da una Weltanschauung reazionaria.

Stiamo parlando di irredentisti come Cesare Battistisindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, e poi ancora anarchici individualisti, socialisti dissidenti con la linea neutralista del partito (come Benito Mussolini, capo di un fascismo milanese che al ‘19 non lascia ancora presagire alcuna svolta a destra), ed altri elementi appartenenti ad una tradizione politica repubblicana, democratica, socialista, libertaria, in una parola “sovversiva”1.

La trama si complica col frastagliarsi dell’ordito della società italiana del primo dopoguerra, con l’amplificarsi dei tumulti e delle trame tese a placare l’ardente volontà di rinnovamento espressa dai ceti subalterni. Tra le varie cause che impediscono alle masse lavoratrici di portare a profitto le agitazioni del biennio rosso dobbiamo registrare, sulla scorta di testimonianze “di peso” come quella di Angelo Tasca o dello stesso Pietro Nenni, la grave deficienza di realismo e pragmatismo da parte della dirigenza socialista locale. I vertici del socialismo italiano erano infatti convinti che la rivoluzione sarebbe venuta da sé, come per ontogenesi, e in tal modo non solo si preclusero concrete possibilità di Costituente e instaurazione della Repubblica, ma lasciarono anche allo sbaraglio le masse rivoluzionarie di fronte alla riscossa del padronato frattanto strettosi intorno ai fascisti che nell’arco del 1920 avevano consumato la loro mutazione genetica.

Un atteggiamento senz’altro inconcludente questo, che non appartenne ai bolscevichi russi. Innanzitutto per essere riusciti ad imporre una rivoluzione marxista ad un paese a malapena uscito dal medioevo: non certo il luogo marxianamente ideale in cui far implodere le aporie del capitalismo al culmine della sua evoluzione.

In secondo luogo per il modo spregiudicato e fortemente pragmatico con cui Lenin e i suoi gestirono le fasi successive alla presa del Palazzo d’Inverno, che li portò da un lato a conquistare alla causa rivoluzionaria un intero, immenso popolo fino a qualche momento prima disperso in una cornucopia assai disparata di correnti e sette; dall’altro ad avere la meglio sulla controrivoluzione dei bianchi messa in piedi con l’aperto sostegno di tutto l’Occidente che non esitò a sguinzagliare contro la Russia eserciti regolari ed anche formazioni irregolari di macellai reclutati presso l’estrema destra europea.

La Realpolitik di Lenin si portava appresso una presa di coscienza che ha dell’epocale, ma che i suoi compagni italiani stentavano a fare propria.

Come in occasione della resistenza armata ai fascisti da parte degli Arditi del Popolo nel 1921-1922, allorquando socialisti e comunisti aderirono sì, almeno in parte, alla lotta, tuttavia sempre in maniera ufficiosa giacché le loro segreterie mantennero sempre una linea di sospettosa, settaria ostilità nei confronti dell’arditismo popolare.

Atteggiamento capace di attirarsi le critiche della stessa Internazionale leninista, che ebbe a stigmatizzare i dirigenti comunisti per non aver infiltrato e quindi preso possesso dell’arditismo popolare che, seppur di ascendenza piccolo-borghese, avrebbe rappresentato un veicolo efficace per l’avanzamento delle istanze rivoluzionarie.

Come scrisse il professor Sternhell a proposito dei sindacalisti rivoluzionari, nel momento in cui il proletariato (o meglio la sua dirigenza) mostra segni tangibili di inadeguatezza rispetto al compito assegnatogli dalla teoria marxista, essi si ritrovano a dover fare una scelta fra, appunto, proletariato e rivoluzione, optando per la seconda, da farsi a qualunque costo, per il socialismo ma senza troppo badare all’ortodossia.

Fiume è il terreno ideale in cui tale prospettiva cerca un suo inverarsi, sotto l’egida del Vate che, in base ad una vulgata pur di dubbia attendibilità, Lenin in persona al Congresso dell’Internazionale indicherebbe come l’unico italiano in grado di fare la rivoluzione in Italia. Ora, quand’anche le parole attribuite a Lenin non corrispondessero a realtà, è comunque significativo che nell’universo del movimentismo operaio si diffondessero voci di questo tenore.

D’Annunzio godeva allora di un ascendente enorme in Italia e non solo. Poeta, drammaturgo, viveur, avventuriero, massone, martinista, in perenne fuga dai creditori ma sempre pronto a ricevere asilo presso i migliori salotti di Parigi o le sue innumerevoli amanti, la sua figura è irrimediabilmente destinata a rimanere ambigua, borderline, e per questo ricca all’inverosimile di sfaccettature.

Politicamente parlando, la storia ci consegna una parabola ondivaga, poco coerente. D’Annunzio però non può essere definito un “politico”, e nemmeno uno statista: semmai, sulla scorta di quanto espresso da Emilio Gentile, egli è una sorta di “ierofante”. D’Annunzio de facto fu il fondatore di una religione, la religione civile della patria italiana.

In ciò attinse dalla tradizione classica e rinascimentale come da quella biblica più incline alle corde del popolo minuto (che lo adorava pur senza capire una sola parola dei suoi scritti), dal patrimonio di simboli e riti del mondo delle società iniziatiche che egli frequentò, così come dagli aneliti del socialismo utopistico e dagli slanci volitivi della filosofia nicciana e derivati che egli per primo fece conoscere in Italia, sebbene a modo suo (ma sarebbe anche inopportuno rimproverargli la mancanza di profondità ermeneutica e la perizia filologica di un Colli o un Montinari).

Tale liturgia si manifestò plasticamente a Fiume, con le divise, i pugnali e i teschi degli arditi, quei reduci dei Reparti d’assalto che dopo la guerra sognavano una palingenesi nazionale in senso rivoluzionario, e i cui rapporti col fascismo, indubitabili, sono tuttavia spesso liquidati come complicità intrinseca nonostante un’ampia storiografia ci parli di tutt’altro, prima che con l’avvento del regime totalitario calasse una cappa oleografica sull’arditismo di guerra che come compito principale aveva quello di oscurare il reale senso dell’attività politica degli arditi nel dopoguerra. A mo’ di esempio basti pensare al coinvolgimento del generale Capello nell’affaire Zaniboni, e la sua conseguente reclusione.

Da Fiume tale armamentario di simboli e riti passò poi quasi integralmente ai fascisti. Ciò non toglie che i rapporti tra fascismo e Reggenza fiumana rimasero tiepidi in una prima fase, col futuro Duce a un certo punto anche accusato dal Vate di aver fatto cassa per sé con i fondi ufficialmente raccolti per i legionari dannunziani dal Popolo d’Italia, per poi diventare apertamente conflittuali a partire dal novembre 1920, quando Mussolini riconobbe il Trattato di Rapallo ostile alla linea di D’Annunzio. Anche i rapporti fra dannunziani di destra e dannunziani di sinistra, dopo i primi mesi di coabitazione, vennero a chiarirsi con la chiamata nella città adriatica di Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario di orientamento mazziniano che a partire dal gennaio 1920 ricoprì la carica di Capo di gabinetto della Reggenza del Carnaro. Sostituiva il conservatore e poi fascista Giovanni Giuriati, dimissionario.

In quel frangente si assistette alla fuoruscita di molti legionari della prima ora, di ispirazione nazionalista e monarchica, simultaneamente all’afflusso di repubblicani d’ogni risma, ivi compresi anarchici, socialisti e comunisti d’ogni nazionalità come Miclos Sisa, già commissario del popolo nell’Ungheria sovietica di Béla Kun. Nel frattempo De Ambris stilava la Carta del Carnaro, costituzione che prefigurava una repubblica fondata sulla democrazia diretta e sul decentramento dei poteri, sulla parità tra i sessi e sul concetto di milizie civiche e popolari, e in cui fra le varie sintesi d’avanguardia si assegnava alla proprietà privata il ruolo di “funzione sociale”, non più pertanto appannaggio esclusivo del singolo come se questi non appartenesse ad una comunità collettiva e organica nei suoi bisogni e destini.

Altra figura significativa che affiancò D’Annunzio a Fiume fu, tra le altre, il poeta internazionalista Léon Kochnitzky, cui era affidato il compito di creare una Lega di Fiume che, nei piani, avrebbe dovuto rappresentare una “Santa Alleanza anticapitalista” di tutti i popoli oppressi dalla “triade dell’oro” franco-anglo-americana2. Con ciò cadde definitivamente l’ombra nazionalista, almeno a livello ideale. A Fiume si cominciò così a parlare di “bolscevismo latinizzato”. Imprescindibile supporto logistico alla causa fu garantito dalla Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare del capitano Giuseppe Giulietti, antifascista della prima ora, le cui navi resero possibili le azioni di pirateria dei celebri “uscocchi” volte ad aggirare le sanzioni economiche sulla città: tra queste va segnalata la cattura del piroscafo Persia ed il sequestro del suo carico, che consisteva di tredicimila tonnellate di armi e munizioni destinate alle armate controrivoluzionarie in Russia.

Fiume diventò, nel corso del 1920, il principale centro di irradiazione delle sommosse popolari in Italia, cui non lesinava uomini e mezzi. Nelle intenzioni di De Ambris e D’Annunzio, la presa di Fiume doveva preludere ad una “marcia interna” per far scoppiare la rivoluzione in Italia: in questo senso furono organizzati degli incontri anche coi socialisti, che tuttavia si risolsero in un nulla di fatto a causa dei loro preconcetti nei confronti di D’Annunzio e, forse ancor più, del mazziniano De Ambris3.

Se tali preconcetti possono anche apparire comprensibili, il mancato accordo fra gruppo dirigente socialista e fiumano possiamo dire che segnò il destino e del fiumanesimo e della speranza di fare la rivoluzione in Italia. Di lì a poco infatti Fiume sarebbe stata vigliaccamente bombardata dalla Regia Marina (Natale di sangue), mentre la marcia su Roma avrebbe segnato il battesimo del regime fascista anziché quello della rivoluzione. A pesare sul mancato successo della linea dannunziana fu, indubbiamente, la sua già citata ambiguità, che però non necessariamente va scambiata per mala fede.

Più probabilmente, D’Annunzio, come capo politico, aveva molti limiti in virtù della sua intima natura, come testimonia anche la successiva velleità di farsi artefice della pacificazione nazionale tra fascisti ed antifascisti (non che i socialisti fossero da meno, dato che sottoscrissero il Patto di pacificazione), in un momento che avrebbe al contrario dovuto segnare la moltiplicazione degli sforzi dell’opposizione a Mussolini ormai palesemente schierato dalla parte dell’ordine monarchico e padronale, così come sperato anche da numerosi legionari fiumani tenuti però a riposo dal loro comandante. A De Ambris non restò così che prendere la via dell’esilio, seguito da tanti altri suoi compagni. Dell’impresa fiumana si impadronì il fascismo, piegandone le mille sfaccettature alla propria univoca prospettiva di riaffermazione territoriale ed etnica di un popolo ai danni di altri popoli.

Questa logica, unitamente all’appropriazione della liturgia e dei simboli, contribuì senz’altro ad alimentare il falso mito della derivazione del fascismo dal fiumanesimo, ancora così in voga sia presso i neofascisti che fra gli antifascisti, quando si trattò in realtà di un’abile operazione di marketing mitopoietico sfruttata dal regime totalitario per giustificare le sue deprecabili politiche di pulizia etnica che con il senso e lo spirito della Carta del Carnaro e dei propositi fiumani così come si erano dipanati non avevano nulla a che vedere.

Hyblaeus

Da l’Opinione Pubblica

NOTE

(1) “Per me il socialismo deve saperselo preparare il destino. La guerra che io caldeggio non è né irredentista, né imperialista, né sentimentalista. L’unità di partito è troppo meschina di fronte all’umanità. Io sono per l’intervento a favore delle nazioni alleate, non per una mira di conquista: Trento e Trieste costituiscono un fine secondario di fronte ai dolori dell’Europa, del mondo intero”. Filippo Corridoni in “Secolo”, 1 novembre 1914.


(2) Nelle intenzioni e nelle parole di D’Annunzio tale alleanza di popoli doveva comprendere “dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la mezzaluna e la croce” (lettera a Giuseppe Giulietti del 15 ottobre 1919). Fatto sta che in quei mesi Fiume accolse emissari di tutti i principali movimenti rivoluzionari del mondo.


(3) Fatta eccezione, nel gruppo dirigente del PSdI, per Nicola Bombacci e Giacinto Menotti Serrati, che intuirono invece le potenzialità rivoluzionarie del fiumanesimo ma non riuscirono a imporsi sui loro compagni.

BIBLIOGRAFIA PARZIALE

– Ferdinando Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova, Marsilio, 1969

– Renzo De Felice (a cura di), Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio, Brescia, Morcelliana, 1966.

– Renzo De Felice (a cura di), La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, 1974.

– Renzo De Felice, D’Annunzio politico (1918-1928), Roma-Bari, Laterza, 1978

– Eros Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1922), Odradek, Roma, 2000

– Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Bologna, Il Mulino, 1996

– Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Bari, 2009

– Francesco Perfetti, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, 1988

– Giorgio Rochat, Gli arditi della Grande Guerra. Origini, battaglie e miti, Milano, Feltrinelli, 1981
– M. Rossi, Arditi, non gendarmi!. Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo, Pisa, BFS, 1997 (2010).

– Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna, Il Mulino, 2002.

– Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1950

– R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1990