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Il 21 settembre abbiamo avuto l’occasione di partecipare alla presentazione organizzata dall’Associazione Culturale Russia Emilia Romagna del volume di Anteo Edizioni, uscito quest’estate, su un capitolo della storiografia italiana sempre raccontato a metà, nelle rare volte in cui effettivamente viene raccontato, vittima della strumentalizzazione di una certa retorica dal gusto “democristiano” che appesta la memoria storica.

Dall’Associazione Culturale Russia Emilia Romagna

Sabato 21 settembre, l’Associazione Culturale Russia Emila Romagna ha organizzato la presentazione a Bologna (Villa Paradiso) del libro il Battaglione Partigiano Russo d’Assalto, edito da Anteo, che contiene le memorie di Vladimir Pereladov. Il libro ha la prefazione del Console russo in Italia e l’introduzione di Giambattista Cadoppi e racconta le gesta del battaglione che fu all’origine delle battaglie che portarono alla liberazione della Repubblica Partigiana di Montefiorino sui territori modenese e reggiano.

La manifestazione è stata introdotta dal presidente dell’Associazione, Luca Rossi, che ha parlato della personalità di Pereladov e da Marina Pozdnyakova che ha ricordato il nonno, il Capitano Russo, come veniva chiamato dalla popolazione. Marina ne ha ricordato l’amore per l’Italia di Pereladov e come questi descrivesse sempre in maniera entusiastica il nostro paese e come egli ritenesse importante sviluppare una migliore comprensione reciproca tra i due popoli. Cadoppi ha inserito le memorie di Pereladov nel contesto generale della resistenza al nazifascismo insistendo sul contributo dei partigiani sovietici anche al livello militare dello scontro con gli occupanti nazisti e i loro servi fascisti. Dunque, non solo l’Armata Rossa liberò gran parte dell’Europa dalla peste grigia, ma fece in modo che anche le aree dove non intervenne direttamente venisse facilitata la sconfitta del fascismo attirando sui di sé oltre l’80% delle truppe tedesche e dei suoi alleati. In Italia, inoltre, ci fu una parte dell’Armata Rossa, quella dei 6mila ex prigionieri divenuti partigiani, che ha combattuto per la nostra libertà, lasciando sul terreno oltre 500 caduti. Oggi assistiamo alla rifascistizzazione della storia che porta alla distruzione dei monumenti all’Armata Rossa in tutta Europa e la loro sostituzione con monumenti ai collaborazionisti del nazismo come Stefan Bandera. La conferenza ha visto una forte partecipazione da tutta la regione.

Giambattista Cadoppi, Luca Rossi e Marina Pozdnyakova

Quella “guerra fredda” già innescata, le memorie di un partigiano sovietico

Nelle mie lettere agli amici della 36a brigata io più volte ho accennato allo scorretto atteggiamento degli americani nei nostri confronti. Lo ripeto anche ora. Dopo l’incontro del battaglione di Nicoli (di cui facevamo parte anche noi russi), con i reparti dell’esercito americano nella zona di monte Battaglia, nel settembre del 1944, i partigiani furono mandati dagli americani, così dissero, a riposo. In realtà ci fecero entrare nel cortile di una casa alla periferia di Castel del Rio e ci disarmarono. I partigiani russi furono immediatamente isolati dagli italiani, senza nemmeno dar loro il tempo di salutare i loro compagni di lotta. Noi cittadini sovietici, fummo rinchiusi, sotto la minaccia delle armi, nel solaio della casa, e dopo qualche tempo gli americani cominciarono a “lavorarci” allo scopo di indurci ad entrare nel loro esercito, promettendoci generose ricompense materiali, la cittadinanza americana e altri “favori” materiali.

Poi, in seguito al nostro netto rifiuto di accedere a queste assurde richieste, noi, partigiani russi, fummo caricati in autobus assieme ai soldati nemici, da noi fatti prigionieri il giorno prima nella zona di monte Battaglia, e ci condussero verso il sud e ci rinchiusero in un loro campo di concentramento, fra Pisa e Livorno. Qui, a differenza dei prigionieri tedeschi, l’amministrazione del campo creò per i cittadini sovietici delle condizioni insopportabili. Perciò, in segno di protesta contro il barbaro arbitrio degli americani, noi fummo costretti a dichiarare lo sciopero della fame, che si protrasse per più di sette giorni. Contemporaneamente innalzammo sopra le nostre posizioni la nostra bandiera nazionale, ricavata da una piccola federa di un cuscino da campo. Alla fine, nonostante la grande stanchezza, l’esaurimento e altre difficoltà di carattere fisico e morale, non ci arrendemmo e ottenemmo il permesso di proseguire per ritornare in patria.

Naturalmente questa “cortesia” da parte dei nostri alleati fu per noi una grande sorpresa e una offesa personale che non si può dimenticare, né perdonare.

Dal volume La Resistenza a Bologna

Il volume è disponibile qui.