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Di Moreno

Nella giornata di ieri, 5 Marzo, abbiamo ricordato l’anniversario (rispettivamente della morte e della nascita) di due personaggi che, al di là del giudizio morale che si può loro attribuire, ci offrono interessanti spunti di riflessione nel campo della questione identitaria e nazionale.


Stalin descrisse la nazione come «una comunità di uomini – stabile e formatasi storicamente – sorta sulla base della comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di struttura psichica, che si manifesta nella comunità della cultura». Ogni elemento che concorre a determinare la “nazione” è inscindibile dagli altri, entro certi limiti. Gli ebrei hanno potuto sentirsi nazione per secoli, sebbene privi di un territorio, eppure il mantenimento degli ebrei come comunità autonoma nella Stato fu a lungo possibile solo sotto forma del ghetto, mentre è chiaro che il capitalismo abbia agito nel senso di una progressiva integrazione degli ebrei nel contesto socio-economico dominante; è dunque chiaro che, nel contesto capitalistico, l’esistenza di una “nazione”, è strettamente correlata con l’esistenza di un territorio di riferimento, in cui un popolo è in grado di interagire e sviluppare relazioni.
Ogni nazione, ogni “popolo”, è il prodotto dell’attività disgregatrice e riformatrice della storia, e di quest’attività la lingua è il risultato più lampante.
Nella lingua, che rappresenta nella quasi totalità dei casi il vero collante delle identità nazionali, è possibile ritrovare il frutto maturo delle conquiste, delle migrazioni, delle necessità economiche e sociali di un popolo. La lingua costituisce dunque il fulcro dell’identità nazionale, in senso largo, siccome per nazione non intendiamo unicamente lo Stato nazionale, ma tutte le identità particolari che contribuiscono a formarlo (lombardi, friulani, veneti, siciliani, sardi ecc.), e che per motivazioni storiche non hanno potuto dotarsi di una classe dominante in grado di guidare una rivoluzione nazionale.
Tuttavia, il problema dell’identità nazionale non si presenta più oggi nelle vesti della necessità di uno stato nazionale: la formazione di uno Stato “nazionale” fu infatti il compito storico della borghesia, e sebbene nei «primi stadi del capitalismo si poteva ancora parlare di «comunità culturale» del proletariato e della borghesia» «con lo sviluppo della grande industria e con l’acutizzarsi della lotta di classe, tale «comunità» incomincia a rompersi» [Stalin].
Inoltre, ricorda Stalin, nel tempo anche la comunità linguistica fra le classi di un popolo rischia di perdersi: «vengono così creati dialetti “classisti,” gerghi, “linguaggi” di salotto. Non di rado questi dialetti e gerghi vengono erroneamente qualificati “lingue” nella letteratura scientifica: “lingua di corte,” “lingua borghese” — in contrapposizione alla “lingua proletaria,” alla “lingua contadina.”».


Per i friulani, ad esempio, la questione linguistica è sempre stata una questione primariamente classista, siccome la classe dominante friulana ha sempre parlato tedesco, veneto o italiano, ma mai friulano, relegato così al rango di linguaggio rozzo e popolare.
È attualmente chiaro che il problema nazionale non può più presentarsi come un problema interclassista, ma come un problema integrato nella lotta di classe per l’emancipazione della classe lavoratrice: è il caso dell’eroica lotta per l’indipendenza del popolo basco e del popolo irlandese, dove l’intreccio fra la questione nazionale e la lotta di classe è sempre stato particolarmente evidente.
La nascita della stato nazionale come entità autonoma ha radici nelle necessità economiche della borghesia, e dove queste necessità non hanno preso la forma di comunità statali autonome, allora è stato compito del proletariato farsi carico della questione nazionale.


Per Pasolini è la perdita della cultura tradizionale e della particolarità locale ad aprire un varco nel quale le peggiori aberrazioni possono insinuarsi: «Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo «spazio» (o «vuoto») per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, «totale», in Italia è andata distrutta, o è in via di distruzione. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più. […] La caduta del prestigio «irrelato» di tutti i valori di una intera cultura, non poteva non produrre una specie di «mutazione» antropologica, e non poteva non causare una «crisi» totale. Tutte le classi sociali ne sono coinvolte, e la perdita dei valori riguarda tutti, benché i più colpiti siano i giovani
delle classi povere: appunto perché essi vivevano una «cultura» ben più sicura e assoluta di quella vissuta dai giovani delle classi dominanti».
La riscoperta del valore delle identità particolari non costituisce in alcun modo una deriva reazionaria, bensì la corretta reazione all’omologazione imposta dalle classi dominanti.
Laddove, infatti, la perdita delle culture particolari rappresenta l’antitesi, la riscoperta dell’identità, nel contesto di una lotta internazionalista e avulsa da qualsiasi logica “da ghetto”, rappresenta la sintesi.
Tuttavia questa riscoperta non può avvenire semplicemente sotto il profilo “folkloristico” e “popolare”, un simile atteggiamento, caratteristico dell’approccio istituzionale italiano, rappresenta semplicemente una gerarchizzazione della cultura locale rispetto alla cultura nazionale.
D’altro canto, una valorizzazione unilaterale della “cultura locale” costituisce una deviazione pericolosa, in quanto promuove la formazione di compartimenti stagni, con il rischio di dimenticare che la questione di classe è per la sua stessa essenza una questione internazionale.