
Riproponiamo in occasione della ricorrenza odierna della fondazione dell’Urbe alcune analisi storiche, filosofiche, politiche e sociali sulla storia romana e i suoi spunti per l’oggi e il domani. Un bilancio storico che va oltre il feticcio, che lasciamo volentieri ad altri, per rientrare in un’analisi di identità strutturale e sovrastrutturale della società italiana e le società vicine in ambito mediterraneo.
Daniel De Leon, Due pagine di storia romana – Magnati plebei e dirigenti sindacali
Dal naufragio della barca dei Gracchi, cioè del loro movimento e della loro tattica, dieci rottami sono arrivati galleggiando fino ai nostri giorni. Li si potrebbe anche definire gli ammonimenti sussurrati dalle ombre dei Gracchi. Se ne potrebbero anche fare altrettanti canoni della Rivoluzione Proletaria. Queste regole si incastrano perfettamente tra di loro: a volte è difficile separarle l’una dall’altra, visto che esse sono in sostanza articolazioni di un’unica idea centrale, derivante dalla particolare natura, già discussa, del Proletariato quale forza rivoluzionaria.
1) La Rivoluzione Proletaria detesta le formalità.
Fu uno sbaglio del movimento graccano spendere tempo ed energie per modificare la forma del suffragio. La caratteristica debolezza del Proletariato lo rende incline agli adescamenti. Questa, la meno favorita di tutte le classi rivoluzionarie della Storia, è chiamata a realizzare una trasformazione sociale che presuppone la più complicata delle sintesi ideologiche; una sintesi che è molto facile oscurare col polverone che la sua irriducibile avversaria, la classe dei Capitalisti, è abilissima a sollevare. Non si potrà mai abbastanza proclamare con energia l’essenza di questa Rivoluzione, vale a dire la soppressione della schiavitù salariale; né si potrà mai abbastanza insistere sull’evidenza che, al di fuori dell’abolizione della schiavitù salariale; tutti i “miglioramenti” o sono funzionali al Capitalismo o sono i più insulsi dei “chiari di luna”, quando non sono delle inutili divagazioni.
Non ci importa come si organizzano le votazioni; non ci importa se abbiamo lo scrutinio all’Australiana o lo scrutinio alla Maltese; non ci importa se abbiamo il voto segreto o il voto a viva voce; anzi, se tanto mi dà tanto; non ci dovrebbe importare neppure se abbiamo il voto o meno. Tutti quei “miglioramenti”, come le attuali riforme elettorali, le consultazioni referendarie, i disegni d’iniziativa popolare, le nomine al Parlamento Federale col voto diretto, o cos’altro, sono, nella realtà dei fatti, altrettanti inganni, che fanno disperdere nel vuoto il calore rivoluzionario. Essi sono anche peggio di questo: sono opportunità per lo sfruttatore di proseguire la sua attività sfruttatrice in modo mascherato, o, meglio, con l’appoggio ed il plauso delle sue stesse vittime, che immaginano di comandare loro e di avere il padrone ai loro ordini, come si vede bene ai nostri giorni. L’unica possibilità per il Proletario di emergere dal groviglio sconcertante delle argomentazioni capitalistiche è di tenere gli occhi ben fissi sugli interessi economici della sua classe, cioè sulla proprietà pubblica della terra e degli strumenti di lavoro; senza di questa, la croce che egli oggi porta in spalla crescerà sempre di peso e sarà trasmessa, ancora più gravosa, alla sua discendenza. Nessuna “formalità” potrà mai aiutarlo.
2) La Rivoluzione Proletaria è di una coerenza implacabile.
Spesso, contro il Socialist Labor Party, s’è mossa la critica che esso è “intollerante” e che i suoi funzionari sono “inflessibili”. La Rivoluzione Proletaria non può conoscere alcuna “tolleranza”, perché “tolleranza”, nella dinamica sociale, suona come “inconsistenza”. Tiberio Gracco passò sopra questo principio, e sopra tutto quello che ne deriva, con la sua legge di Licinio ritoccata. Se mai significarono qualcosa la legge di Sempronio, l’attitudine personale di Tiberio e quella delle masse plebee che lo consideravano il proprio paladino, il significato fu questo: che la plutocrazia latifondistica di Roma era una classe criminale; criminale per aver derubato la comunità civica del suo patrimonio; doppiamente criminale per aver usato il saccheggio allo scopo di degradare le condizioni della gente semplice e quindi minare la sicurezza dello Stato. La sola deduzione logica, da simili premesse e da un simile corredo di fatti, sarebbe un’ingiunzione di resa incondizionata rivolta al criminale sociale in oggetto; ma la legge di Sempronio, lungi dal prendere tale posizione, fece propria quella contraria. Confermando i diritti di proprietà sui beni rubati, per quanto poi la conferma rimanesse solo implicita, e accordando un’indennità ai predoni, il movimento graccano divenne incoerente e quindi smentì sé stesso, esso si sottomise all’usurpazione e dunque si castrò da solo.
Riguardo alla Rivoluzione Proletaria, non un punto che essa segni a suo favore, non un atto che compia deliberatamente, non un impegno che porti avanti può fare a pugni con un altro o con i principi generali dai quali la sua pratica politica è nata. Se il Capitalismo è un privilegio, il privilegio deve essere eliminato; se il Lavoro produce tutta la ricchezza, tutta la ricchezza appartiene al Lavoro. Ogni azione che suggerisca, o, mettiamola in questi termini, che contempli la “gentilezza” e la “tolleranza” sacrificherebbe la logica delle cose e priverebbe di nerbo la Rivoluzione. Riguardo alla Rivoluzione Proletaria, qualsiasi proponimento deve marciare al passo delle sue aspirazioni; dove questo non si verifica, essa zoppica, inciampa e cade.
3) I rimedi momentanei operano a vantaggio del male.
Suonano sempre credibili le belle frasi circa l’opportunità di “non trascurare le piccole conquiste” e i suggerimenti di “accettare mezza pagnotta se una intera non si può avere”. Il movimento graccano diede retta ad una simile illusione ottica: già la vecchia legge di Licinio aveva avuto questa matrice e tanto più la ebbe la sua forma ritoccata quale legge di Sempronio. Si valutò che la gente non poteva ottenere tutto ciò al quale aveva diritto; poteva però ricevere un acconto, un anticipo su quanto dovuto: in breve, un “palliativo”. Così il movimento graccano si diede da solo una mortale stoccata.
Se il rimedio sintomatico non potesse impedire lo sbocco risolutivo, se la cosa iniziasse e finisse lì, qualsiasi possibile inconveniente sarebbe trascurabile. Purtroppo, è in casi come questo che la logica implacabile della Rivoluzione Proletaria travolge l’incauto apprendista.
In primo luogo, la stessa mano che allunga il “palliativo” a chi subisce un torto, offre simultaneamente “sollievo” all’autore dell’ingiustizia; le due azioni sono inseparabili: l’ultima è inevitabile conseguenza della precedente. Provate a chiedere poco, quando avreste diritto a tutto, e la vostra richiesta, per quanta verbosità declamatoria o astrazione scientifica ci possiate mettere, funzionerà come una legittimazione del principio che vi nuoce. Peggio ancora: il “palliativo” può essere o meno, spesso più sì che no, del tutto immaginario, mentre il “sollievo” all’avversario di classe è sempre tangibile, scevro da utopie. Ne consegue che il “palliativo” indurisce il male sociale che vorrebbe lenire.
In secondo luogo, il rimedio momentaneo ha il difetto di inoculare nelle forze rivoluzionarie il germe di un fondamentale equivoco circa la natura del nemico che esse hanno davanti. La tigre difenderà la punta dei suoi baffi con la stessa ferocia con cui difenderà il suo cuore: è un riflesso istintivo; ma il ricorso ai “palliativi” discende dalla convinzione che essa non si comporterebbe così, e, impercettibilmente, insinua nelle menti questa teoria.. il ricorso ai “palliativi” discende dall’ipotesi che la classe capitalistica acconsenta a farsi scorticare fino in fondo: una fatale illusione! Il corpo di Tiberio Gracco, scempiato a morte dalla tigre latifondistico-plutocratica di Roma, suona l’allarme contro questo tipo di illusioni. La tigre del Capitalismo proteggerà il suo superfluo con la stessa ferocia con cui proteggerà la sua stessa esistenza. Non si guadagna alcunché sulla via dei “palliativi”, ma si può perdere tutto.
4) La Rivoluzione Proletaria segue regole proprie.
Allorché, in una fase critica della rivoluzione in cui era coinvolto, Tiberio Gracco prese una scorciatoia e rimosse, senza riguardi per la “legalità”, il collega che sbarrava la sua strada, egli, più o meno consapevolmente, agì in ossequio a quel principio della Rivoluzione Proletaria secondo il quale bisogna “marciare al ritmo del proprio tamburo”, cioè badare a sé stessi: qualsiasi atto debba compiere, la Rivoluzione lo considera alla luce di un regolamento che, sebbene non formulato per iscritto, essa serba nel suo seno. Quando però, in seguito, Tiberio si rivolse, in cerca di giustificazione, verso le leggi di quella medesima classe sociale contro cui s’era scagliato, egli scivolò dal piano rivoluzionario e trascinò con sé la sua rivoluzione. Il rivoluzionario che cerca il manto della “legalità” è un rivoluzionario finito, è un fanciullo che gioca a fare il guerriero.
Una scena simile, che illustra molto bene l’incidenza di questo punto specifico per le lotte dei nostri giorni, si verificò a Denver, nel 1894, alla Convenzione dell’American Federation of Labor. L’A.F.L., in un precedente incontro, aveva predisposto una votazione generale intorno a una certa dichiarazione di principii; tra questi principii, ce n’era uno, il 10°, del quale una determinata corrente, che si autodefiniva Social-democratica, ridacchiava con candido diletto: essa riteneva che l’articolo avesse un contenuto socialista; un furbone del loro gruppo l’aveva inserito di soppiatto nel novero delle cosiddette Dichiarazioni; con quello stratagemma essa intendeva conquistare le Trade Unions di tipo tradizionale e “legare le mani ai Dirigenti sindacali”. Per un intero anno i nostri “rivoluzionari” avevano riso allegramente e sempre più forte. In effetti, nei Sindacati, si profilava una maggioranza a favore di tutta la piattaforma dei principii, incluso il decantato “punto 10”. Alla Convenzione di Denver il programma doveva essere posto al vaglio dei delegati, ma i Dirigenti che controllavano l’assemblea negarono il voto su di esso, con la buona e sufficiente ragione che, a loro avviso, la Base non sapeva bene su cosa bisognasse esprimersi. Il punto non è qui: questa è solo la premessa per il punto dove intendo arrivare; ma, prima che ci arrivi, lasciatemi rimarcare che la Base si è sottomessa docilmente a quel trattamento. Il punto vero sta in una buffa scena che è avvenuta durante il dibattito sulla cassazione di quel voto; la scena è stata la seguente: il “rivoluzionario” che aveva surrettiziamente introdotto il “punto 10” nella dichiarazione di principii, e che dunque s’aspettava di tendere un agguato ai Sindacati, era tal T. J. Morgan, un signore con precedenti nella Social Democratic Federation inglese, ma ora vivente a Chicago; egli, alla Convenzione di Denver, stava inveendo contro il tentativo, da parte dei Dirigenti sindacali, di far fuori il suo “punto 10” e, incidentalmente, stava, con parole sue “introducendo ottimi spunti di Socialismo”, quando il suo flusso oratorio venne interrotto; un noto Dirigente sindacale, col quale i produttori di sigarette in America hanno un non lieve debito di riconoscenza, il signor A. Strasser, della Unione Internazionale dei Lavoratori del Tabacco, si fece avanti nel salone del congresso e esordì: “il signore mi permette una domanda?”. “Certamente”. “Voi siete in favore delle confische generalizzate?”. La risposta deve ancora venire: il signor Morgan s’è sgonfiato come un palloncino bucato… Tale scena avrebbe dovuto essere incisa su lastra , per tramandare nel tempo, con pittorica vivacità, l’effetto castrante dell’ignoranza di una delle regole fondamentali della Rivoluzione Proletaria sull’uomo, e specialmente sul capo politico, che s’arrischia a battere la strada del conflitto sociale senza aver assorbito nel suo sistema d’idee il canone qui preso in esame.
Come ho già detto, la Rivoluzione Proletaria marcia al ritmo del proprio tamburo: i suoi atti vanno giudicati secondo il codice di comportamento che essa porta fra le sue pieghe, non col metro della Legge esistente, che altro non è se non il riflesso dell’esistente privilegio. In verità, sotto questo aspetto, la Rivoluzione Proletaria condivide un tratto con tutte le rivoluzioni precedenti, compresa quella borghese: un nuovo sistema sociale porta con sé un nuovo insieme di massime morali. Le norme etiche di cui è impregnata la Rivoluzione Proletaria scorrono come una dimostrazione geometrica: Il Lavoro da solo produce tutta la ricchezza, mentre l’Ozio produce soltanto putrefazione; ma la ricchezza della terra è nelle mani degli oziosi, mentre le mani dei lavoratori sono vuote; simili dure condizioni sono dovute alla proprietà privata dei mezzi di produzione da parte della classe oziosa, quella dei Capitalisti; ma il lavoro è diventato un processo collettivo; quindi anche gli strumenti di lavoro devono diventare collettivi. Questo deduce chi porti il ragionamento fino alla sua ineluttabile conclusione; qualsiasi nome poi voglia darle. Di conseguenza, nessun militante della moderna Rivoluzione Proletaria può accasciarsi inerte davanti a chi grida all’“esproprio”!
Plutarco, che il Prof. Lieber (N.d.T.: Francis Lieber, intellettuale tedesco di simpatie liberali, costretto ad emigrare oltreoceano dopo il 1848) sospetta a ragione di molta influenza sul moderno pensiero critico, menzionando le azioni di Tiberio Gracco, riporta senza commento, il che equivale, in quel contesto, a un aspro sarcasmo, l’elaborata arringa difensiva di Tiberio per la rimozione del suo collega di Tribunato: una Rivoluzione che ha bisogno di fare la propria apologia farebbe meglio a rinunciare… Sempre Plutarco commenta la legge di Sempronio in questi termini altamente incisivi: “Non fu mai vista legge più moderata contro tanta ingiustizia e oppressione; perché coloro che avrebbero meritato di essere puniti per la loro trasgressione dei diritti della comunità e multati per la loro detenzione di terre fuori-legge, ebbero un occhio di riguardo, se solo avessero rinunciato alle loro infondate pretese e avessero restituito le terre a quei cittadini che li avrebbero dovuti rimpiazzare”.
Supponiamo che un uomo predichi al Proletariato, nella maniera più convincente di cui sia capace, gli astratti principii che gli sono propri, quelli della Rivoluzione Socialista; ma che poi costui cerchi di addolcire la pillola con propositi e azioni implicanti la nozione di “tacitare con una buon’uscita” i Capitalisti; orbene, quell’uomo sta facendo semplicemente piazza pulita, ai fini pratici, di tutto ciò che ha detto in precedenza: egli priva la Rivoluzione delle sue premesse, delle sue pulsazioni, del suo ardimento.
5) La Rivoluzione Proletaria è irriverente.
Karl Marx, la concezione del quale ha il carattere distintivo di restare coi piedi per terra e d’essere estremamente concreta, accenna, proprio nel mezzo di un astratto capitolo d’economia, al fatto che è essenziale, per la stabilità del Capitalismo, che il Proletariato guardi alle condizioni circostanti come se fossero fuori del tempo. Questo tipo di riverenza cieca è un portato del tardo Capitalismo: sebbene partito come iconoclasta, il Capitalista alimenta un clima di bigotteria; ed è essenziale alla sua sicurezza che le masse proletarie lo prendano sul serio. La radice di un tale rispetto cieco è la credenza nell’antichità del soggetto rispettato, credenza che si proietta nel futuro, non meno che nel passato. Il Capitalismo con i suoi idoli, i suoi idoli con esso, tutti vengono dichiarati “sacri”: “sempre lo furono, sempre lo saranno, in una vita senza fine”” Il Capitalista alimenta una simile riverenza e, mentre manda avanti ““ suoi parroci”, si chiama fuori come fa il Sommo Pontefice. Lo sfruttatore ha sempre bisogno del manto della santità; quindi è importante spogliarlo del suo travestimento.
L’atteggiamento di Tiberio sembra esemplificare ottimamente quest’utile inganno capitalistico: egli manifestò riverenza per la Magistratura; l’arringa in difesa della deposizione del collega santificò la classe sfruttatrice e ficcò superstiziosi timori nella mente dei più, quando piuttosto le loro braccia non sarebbero mai state libere di colpire finché le loro coscienze non fossero state emancipate. Allorché i rispettosi proletarii si calpestarono l’uno con l’altro, per far rispettosamente largo ai Senatori, i quali scattarono in avanti, armati con asticelle e pezzi di mobili maneggiati come bastoni, per abbattere Tiberio, lo sfortunato riformatore non poté fare a meno di accorgersi che la freccia che lo stava uccidendo era guidata da una penna strappata dalle sue stesse ali riformatrici.
L’irriverenza è una delle potenti aspirazioni della Rivoluzione Proletaria; non l’insolenza, che è la manifestazione di una personalità debole, ma l’irriverenza autonoma, che è il segno di chi è consapevole di essere forte, perché dotato di una coscienza solida. Al contrario, la riverenza per il privilegiato denota subalternità mentale, e dunque anche materiale, verso il privilegio.
6) La Rivoluzione Proletaria confida in sé stessa.
La tattica di Gaio Gracco, consistente nel cercare supporto e protezione presso l’Ordine Equestre, una volta sobillato questo contro l’egemonia senatoria, fu un grave passo falso: invece di stimolare il movimento popolare alla fiducia in sé stesso, lo abituò ad appoggiarsi su un altro soggetto politico.
La Rivoluzione Proletaria non deve, in alcuna circostanza, giocare il ruolo del cavallo della favola. Conoscete la storiella? È carina. Un cavallo era molestato da un leone; l’equino si rese conto che le sue possibilità di pascolare erano sminuite da quella bestia ruggente, che giaceva acquattata tra i cespugli, minacciava sempre di saltargli addosso, spesso lo faceva e talora lo graffiava fino a farlo sanguinare; così quel cavallo, scoprendo che l’area del suo pascolo si stava restringendo e che comunque la sua vita era in pericolo, entrò in negoziati con un uomo. In base agli accordi, l’uomo montò il cavallo e, con i loro sforzi congiunti, il leone fu eliminato. Ma da quel momento in poi, il cavallo non poté più sbarazzarsi dell’uomo sulla sua groppa.
Prendendo l’iniziativa di assegnare all’Ordine Equestre competenze che esso non aveva mai in precedenza esercitato, Gaio Gracco certamente indebolì il Senato, ma, allo stesso tempo e nella stessa misura, aumentò il numero dei pretendenti all’usurpazione del potere politico: tutta gente che aveva in passato sostenuto e aggravato il malessere sociale contro il quale egli stava lottando. Infatti, l’Ordine Equestre costituiva una classe che già aveva tratto profitti dalle iniquità senatorie. Investendo i Cavalieri di compiti prima spettanti al Senato, Gaio Gracco era più sicuro nei confronti di quest’ultimo, ma solo nel senso nel quale il cavallo della fiaba lo era nei confronti del leone, dopo la propria alleanza con l’uomo; Gaio, come il cavallo, s’era messo sul dorso la sella di un padrone: e venne l’ora in cui il padrone s’impose su di lui.
Oggi, per il Proletariato, è uno spreco di tempo e d’energia disarcionare il Partito Democratico, per quanto oppressivo esso possa riuscire, se lo scrollone avviene facendo montare in sella il Partito Repubblicano, che degli oppressori democratici è complice; analogamente, sebbene il Proletariato possa nutrire risentimenti contro un Presidente o un Governatore di parte repubblicana, che gettano le forze armate locali o federali sul piatto della bilancia, facendolo pendere dal lato dei Capitalisti nel corso dei conflitti di lavoro, sarebbe una pura perdita di energie sostituire quei personaggi con i loro doppioni democratici. Tutto questo è elementare. L’assurdità di simili esperienze è illustrata dal destino del cavallo della favola. Non ci può essere alcuna caduta di uno dei due partiti, se non vengono buttati giù entrambi contemporaneamente; e quel “gancio” micidiale lo può sferrare solo il Proletariato!
Tutto questo è elementare; ma parimenti elementare, nonostante la cosa sia meno evidente, è che la Rivoluzione Proletaria dovrebbe non solo non perseguire, ma anche evitare come la peste tutte le alleanze con le altre classi sociali, nel corso dei suoi scontri e scaramucce contro i Capitalisti, contro la “plutocrazia latifondistica” del giorno d’oggi. Qui, ancora una volta, si manifesta la peculiare debolezza tattica del Proletariato, la sua propensione ad abboccare alle lusinghe; ciò richiede una vigile attenzione da parte del nostro Movimento.
Non c’è, nella società contemporanea, alcuna classe economico-sociale al di sotto del Proletariato; questo è l’ultimo della lista; se ci fossero altre classi inferiori ad esso, la Rivoluzione Proletaria non sarebbe quel che è, la prima di tutte le rivoluzioni con un programma umanitario su scala mondiale. Tutte le altre classi, quando hanno cercato d’emanciparsi dalla classe che stava sopra di loro, erano fondate sulla soggezione di una classe ancora inferiore; solamente la Rivoluzione Proletaria comporta l’abolizione del dominio di classe. Da tale stato di fatto deriva che qualsiasi classe con cui il Proletariato potrebbe allearsi, sebbene oppressa dall’alto, deve risultare essa stessa una classe spogliatrice; in altri termini, deve essere una classe i cui interessi riposano sulla soggezione dei lavoratori. Una classe di questo genere è il moderno “ceto medio”: esso, come l’uomo della favola che ho appena raccontato, può ben allearsi col Proletariato, ma solo al fine di cavalcarlo; per quanto suonino bene le sue parole d’ordine, queste sono solo lusinghe truffaldine.
Fintanto che il Proletariato resta in cerca di alleanze esterne, esso dimostra di non avere ancora gambe per camminare da solo; ogni mossa o misura interclassista può solo privarlo di qualsiasi possibilità di svilupparsi e di acquisire quelle gambe. La Rivoluzione Proletaria confida in sé stessa: è autosufficiente.
7) La Rivoluzione Proletaria disdegna le regalìe.
I biscottini inzuppati per i cani, i donativi, non sono come i palliativi: le due cose differiscono in modo essenziale. Prima ho spiegato in cosa consistono i rimedi momentanei; il regalo non è un acconto o un versamento in anticipo di quanto uno dovrebbe ricevere di diritto; è un “extra”, un “bon-bon”, un farmaco narcotico tirato fuori per blandire le persone; peraltro, questo premio aggiunge tanto poco quanto il palliativo al carattere e alla rettitudine del Movimento. La principale caratteristica del regalo è, però, quella di essere una canna marcia a cui spera di appigliarsi chi sta nella palude: una cosa infida che nessun rivoluzionario dalle idee chiare vorrebbe mai adoperare. Eppure fu proprio su una simile canna che Gaio Gracco cercò appoggio, quando propose 3 colonie per dar sollievo al proletariato romano.
Che cosa potevano realizzare queste 3 colonie? In primo luogo, la loro natura aveva qualcosa di simile a una diserzione: i colono dovevano lasciare Roma, il suolo italico, in breve il campo di battaglia, per installarsi lontano, in Africa, in Spagna, in Sardegna. Ma, soprattutto, in che modo quelle fondazioni coloniali avrebbero potuto alleviare il malessere di Roma, a meno che non fossero state intraprese su scala gigantesca, vale a dire alla scala di un’emigrazione in blocco dalla città? Del resto un trasferimento massiccio avrebbe annullato il loro scopo iniziale.
In ogni caso, da parte di Gaio, proporre solo 3 colonie fu il più banale degli incentivi accordati ai suoi seguaci. Il vero rivoluzionario non deve mai accordare premi alla base rivoluzionaria ; appena lo fa, egli si pone alla mercé del nemico, perché può venir sempre superato nelle donazioni, come lo fu Gaio Gracco. La promessa di 12 colonie, con la quale il Senato rispose alla proposta di Gaio per 3, neutralizzò completamente quest’ultima, lasciando l’onore della munificenza dalla parte dei Patrizi. Nutrito alla mammella del premio, il proletarius romano spostò il suo favore verso lo schieramento dal quale poteva ricevere una quantità più grande di benefici; e ciò, più di ogni altro avvenimento, spogliò Gaio delle sue forze; una volta che il tribuno fu isolato e battuto, il maggior dono delle 12 colonie non si concretizzò più: esso aveva assolto alla sua funzione narcotica e fu lasciato perdere.
Su questo tema, c’è una bella esemplificazione a tutto tondo, appena “sfornata”. Vi leggo qui un passo di un telegramma inviato da Chicago il 2 aprile, appena due settimane fa, al “Social Democratic Herald” di Milwaukee; è firmato da J. Winnen. Riferendosi al consenso suscitato il giorno prima, in Chicago, dalla mozione di un partito borghese a favore della Proprietà Municipale; il socialdemocratico Winnen scrive: “Una maggioranza dei due terzi in favore della Proprietà Municipale dimostra che il Socialismo è nell’aria!”
Il mercato del lavoro di Chicago è sempre stato molto più agitato di quello di New York; come risultato di questa situazione, o forse per l’aria di lago, gli uomini politici borghesi di Chicago sono, se possibile, più svegli di quelli della stessa New York; e ammetto che è dir molto! Noi abbiamo visto spesso, ultimamente, anche a New York, la Proprietà Municipale usata come “cavallo da parata” da singoli uomini politici; poiché l’impavida agitazione dei Socialisti ha reso familiari all’opinione pubblica le aspirazioni socialiste, sebbene solo in maniera vaga, il politicante, essendo “aperto” oltre che scaltro, non esita a pescare nell’elettorato socialista; ma, essendo scaltro oltre che “aperto”, non ha obiezioni contro questa recita se può indulgervi spacciando l’apparenza per la sostanza, tanto meno se può far inciampare i Socialisti. La Proprietà Municipale è nozione che si presta benissimo a tali scopi: essa suona socialista, sembra socialista, e tuttavia il termine può nascondere il più malizioso dei disegni capitalistici. Il Capitalista, quando la sua favoletta da balia sulla capacità innata di capitano d’industria che Dio gli avrebbe dato fa naufragio, può trovare un discreto porto di ricovero nella Proprietà Municipale: è un premio ideale per il Capitalista poter afferrare quello che nulla gli costa. Sappiamo tutto questo; ed era in vista di tutto questo che il programma per le elezioni comunali del Socialist Labor Party è stato scritto così com’è, tale da rendere il rappresentante della nostra organizzazione a prova di errore sugli Enti Locali. Viceversa, non sorprende trovare che il donativo, o espediente, della Proprietà Municipale fa furore presso gli uomini politici di Chicago; lassù è tanto in auge che nelle elezioni comunali che si sono concluse il I° aprile, la Proprietà Municipale ha ispirato il grido di battaglia di un partito politico borghese: la sua piattaforma la reclamava e i discorsi degli esponenti di quel partito rimbombavano della “municipalizzazione” dei tram, della rete del gas, degli impianti elettrici, e insomma di tutto quanto si vedesse in giro. I politicanti di Chicago hanno il naso fino; quanto fino lo si può valutare dalla duplice circostanza che il voto per il nostro S.L.P. è cresciuto sensibilmente in termini assoluti, mentre il Social Democratic Party, che aveva una piattaforma nazionale tutta sbilanciata verso la Proprietà Municipale, è calato così marcatamente, che i suoi esperti di statistica hanno dovuto trovare riparo ai diminuiti suffragi dietro le percentuali dei votanti.
Tale è la situazione a Chicago. Il Socialista intelligente sente la puzza dell’imbroglio dietro la Proprietà Municipale su cui s’è fatta agitazione in quella campagna elettorale: non gli può sfuggire. Però il largo consenso coagulatosi attorno a quella proposta borghese di Proprietà Municipale, lungi dal farlo sorridere, può fargli solo aggrottare le sopracciglia: quel voto rivela che vasti capitoli della educazione socialista sono rimasti incompresi; che vaste masse popolari sono ancora così indifese che le si potrebbe prendere con della carta moschicida. Non c’è motivo per gioire di questo risultato.
Ciò nonostante il nostro Socialdemocratico si rallegra: “Una maggioranza dei due terzi in favore della Proprietà Municipale dimostra che il Socialismo è nell’aria!”. “Nell’aria” lo vorrei dire balbettando! È molto campato “in aria” dovunque, eccetto, guarda caso, che sul terreno di Chicago! Una maggioranza dei due terzi per un progetto di Proprietà Municipale, elaborato da un partito politico borghese, “dimostra che il Socialismo è nell’aria” e si enfatizza questo fatto con allegria… Ma riuscite ad immaginarvi una simile puerilità? Per questo signore i Gracchi sono vissuti, hanno faticato, hanno sanguinato e sono morti invano!
Lasciate che il moderno rivoluzionario tenti l’espediente della Proprietà Municipale ed egli si vedrà superato sul piano delle municipalizzazioni, perché nessuno è incline alla demagogia più degli usurpatori: per ogni azienda municipalizzata che egli proponga, la classe capitalistica ne proporrà a dozzine; allo stesso modo nel quale, per ciascuna colonia proposta da Gaio Gracco, il Senato lo superò proponendone quattro e poi gli sottrasse il suo seguito e mise la temuta rivoluzione con le spalle al muro. E pensare che Gaio stesso aveva dato una mano ai suoi avversari: ogni donativo fatto da Gaio al popolino, divenne una buccia di banana da lui gettata in mezzo ai suoi stessi piedi; ed egli, naturalmente, scivolò e cadde.
Non “regali!”, bensì “resa incondizionata del Capitalismo!” è il grido di battaglia della Rivoluzione Proletaria.
8) La Rivoluzione Proletaria è mossa e unificata dalla razionalità, non dalle chiacchiere.
Il linguaggio è uno strumento potente, senza dubbio; ma, quando s’è detto questo, non s’è detto ancora tutto. Un discorso che assolve bene un certo compito, non funziona per un altro: qualunque forma possa prendere in altri campi, la propaganda della Rivoluzione Proletaria deve essere marcata dal significato, non dal suono delle parole; dal ragionamento, non dalla retorica. La formazione ricevuta dai Gracchi, e da Gaio in particolare, li squalificò su questo piano: essi erano stati educati fin dall’infanzia da retori greci; orbene, l’oratoria, come una nave, può solcare le acque della Rivoluzione Proletaria, ma quelle si richiudono dietro di lei senza lasciare traccia.
L’Organizzazione è un’esigenza della Rivoluzione Proletaria; essa è richiesta a causa del gran numero di persone che impegna, ma soprattutto è richiesta come difesa attiva contro la debolezza tattica, che ho segnalato nel Proletariato in quanto forza rivoluzionaria. Altre rivoluzioni hanno potuto riuscire anche se dotate di un’organizzazione leggera e d’un bagaglio incompleto d’informazioni: esse in primo luogo erano altrimenti bilanciate; inoltre, poiché tali rivoluzioni si fondavano comunque sull’asservimento di qualche classe sociale, una qualsiasi accozzaglia di gente in armi poteva sempre trovar posto nel quadro generale. Le cose vanno diversamente per il Proletariato: esso necessita d’informazioni precise, sia per stare fermo, sia per avanzare, e la sua organizzazione deve essere improntata all’intelligente cooperazione fra gli aderenti. L’armata di liberazione proletaria non può consistere in un’accozzaglia: la sola idea è già una contraddizione in termini. Ebbene, l’ardente e consumata oratoria che era a disposizione dei Gracchi, e che essi usarono con larghezza, non poté affatto prendere il posto dell’addestramento alla dura e cruda realtà, del quale i proletarii avevano necessità. La retorica dei Gracchi riuscì a compiacere, intrattenere, influenzare la gente, ma non a organizzarla; non poteva riuscirvi. In effetti, al primo serio spavento, le loro forze si dileguarono, così come abbiamo visto molte volte dissolversi le forze proletarie ai nostri giorni. La propaganda è uno strumento di riforma: essa può dissodare il terreno, non seminarlo; ma la Rivoluzione Proletaria maneggia l’acciaio temprato di un aratro più pesante.
9) La Rivoluzione Proletaria non gioca sull’ambiguità.
È a suo rischio che una rivoluzione dissimula i suoi scopi; l’affermazione è vera a maggior ragione per la Rivoluzione Proletaria. Gaio Gracco aveva preso posizione contro il Senato; egli concepiva quel corpo politico come l’incarnazione di tutti i mali; ma che egli guardasse solo alla superficie delle cose appare chiaro dalla sua condotta, che lo spinse ad investire di poteri senatoriali i Cavalieri, uomini che appartenevano alla medesima categoria economica dei Senatori. Nella mente di Gaio, il Senato era la barriera contro la diffusione del benessere sociale e la sua rivoluzione aveva il fine ultimo di abbattere il Senato; ma egli tenne il segreto chiuso nel suo seno e gli permise di affacciarsi solo occasionalmente. Per diffondere l’idea che non il Senato ma il Popolo avrebbe dovuto governare, non il Senato ma il Popolo avrebbe dovuto essere ascoltato, si narra che Gaio, nelle sue dichiarazioni ufficiali, a differenza degli oratori del passato, fosse solito mantenere il volto orientato verso il Foro, anziché verso la Curia senatoria; questo atteggiamento fu una sorta di pantomima, indegna di una grande causa, che piuttosto avrebbe richiesto lingua franca e toni decisi; comportandosi in tal modo, Gaio Gracco non poteva che sollevare polvere sopra i suoi disegnai, e, dopo tutto, ritrovarsi indebolito: egli non riuscì comunque a sorprendere l’avversario con la guardia abbassata, e, d’altra parte, tenne lontane delle forze preziose, che un linguaggio più schietto avrebbe attratto al suo fianco.
Solo la strada verso la Servitù richiede le maniere concilianti; la strada per la Libertà ne postula di più rudi. Le pantomime, le ambiguità e le messinscene possono soddisfare le esigenze di un movimento nel quale i Proletari hanno semplicemente il ruolo di stupide bestie da soma. Le pantomime, le messinscene e le ambiguità ripugnano alla Rivoluzione Proletaria e da quella sono totalmente respinte!
10) La Rivoluzione proletaria forgia il carattere personale.
Nell’introduzione alle presenti regole della Rivoluzione Proletaria, ho sostenuto che esse s’incastrano l’una nell’altra, visto che tutte discendono da un’idea centrale; tale principio comune si può assumere come la decima di queste regole; essa riassume tutte le precedenti: non avrete certo mancato di vederla far capolino in mezzo alle altre.
L’Organizzazione proletaria, vale a dire l’associazione che serve la grande armata di liberazione proletaria, non sarà mai premunita abbastanza contro tutto quello che può tendere a guastare i suoi membri; essa deve stare attenta a promuovere il carattere e la fibra morale della massa. La forza d’animo è un segno distintivo della Rivoluzione Proletaria; di conseguenza, in cima alla lunga serie d’errori commessi dai Gracchi, sta la misura di Gaio per la distribuzione gratuita del frumento: con quel gesto, egli ridusse il popolino romano a una cricca di mendicanti; ma dei mendicanti possono disertare e compromettersi, non certo portare avanti una rivoluzione!
I Romani nullatenenti videro le loro energie consumate in ritocchi formali alle istituzioni; la loro intelligenza traviata da prese di posizione illogiche; la loro moralità rovinata dai palliativi; la lama della loro dignità rivoluzionaria smussata; il loro vigore ideale paralizzato dalla venerazione dell’invenerabile; la loro fiducia in sé stessi spezzata dall’affidamento a elementi sociali ostili; la loro risolutezza distorta dai regali; le loro menti stordite dalla retorica; la loro percezione delle cose distratta dalle pantomime; e, in ultimo, il loro carattere trascinato alla bassezza dell’accattonaggio. Allora, può destare meraviglia che il proletarius romano, al momento critico, fornisse una prestazione da vero mendicante, facesse pace con gli sfruttatori e lasciasse i suoi rappresentanti nelle difficoltà?
Spiacevole è il compito di sottoporre a critica l’operato di uomini mossi da così nobili aspirazioni come i Gracchi. Eppure va ricordato che, fra tutte le penose gesta dei Gracchi, nessuna è paragonabile a quella di Gaio, quando, scoprendosi abbandonato dalle masse che lui stesso aveva traviato e implicitamente allontanato da sé, invocò nel tempio di Diana l’eterna schiavitù per coloro che gli avevano manifestato bassa ingratitudine; che è poi esattamente quanto, nei tempi moderni, abbiamo visto fare da molti “utopisti” divenuti reazionari.
Ivan Branco e Marco Carboni, Riflessioni sul Natale di Roma
21 aprile del 753 A.C., la data che segnò uno spartiacque all’interno dell’età antica e dell’intera storia europea e occidentale, segnò l’inizio della civiltà che farà conoscere e spargerà una grande morale tanto pratica nella e della vita quanto legata all’eterno culto del celeste, una morale e dei valori fortemente
legati alla volontà terrena, all’edonismo inteso come ricerca razionale del piacere “qui e ora” e puntando sempre lo sguardo anche al di là del proprio Io momentaneo, e quindi non puro e sfrenato consumismo, non come quell’etica che, con parole, fatti e simboli odierni, possiamo considerare come totalmente
borghese, e quindi egoistica e non individuale, irrazionale e non saggia, illusoria e non veramente terrena e materiale.
Ma Roma non è solo esempio di grandi valori morali (coraggio, lealtà, sacrificio, estetica ed etica del piacere, giustizia, disciplina e libertà) ma anche di grandi modelli politici e sociali sanciti dalla nascita del suo diritto, fondato partendo proprio da quei cardini “spirituali” e in continuo divenire del popolo romano, i quali vedrà nei suoi grandi condottieri (Romolo, Giulio Cesare, Ottaviano Augusto etc.) e nelle sue grandi istituzioni (i Comizi Curiati, le Magistrature, il Concilio della Plebe etc.) la realizzazione di tutto ciò, fino agli inizi del III secolo D.C., età d’inizio della decadenza dell’impero e della civiltà romana.
Ora però, noi moderni, o meglio, noi uomini (a)moderni, abbiamo il dovere di volgere lo sguardo al passato e, con sempre rinnovata coscienza lucida, razionale e disciplinata, cercare di comprendere i veri meccanismi, la vera vitalità e i veri successi e fallimenti di un’epoca tanto bistrattata dai “nostalgici
delle vere tradizioni italiane” e dai cosmopoliti odiatori di tutto ciò che è grande, portando entrambe le parti a una totale decontestualizzazione della storia di Roma.
Per portare avanti una breve analisi che vada contro la tifoseria e la superficialità degli elementi già sopracitati, occorre anzitutto trovare i punti cardine da cui far partire la stessa, ed essi possono essere individuati nella:
1)Morale e Cultura di Roma
2)Società ed Economia di Roma
3)Politica Estera e Dominazione di Roma
1) Quando si parla di cultura di un popolo, dobbiamo vedere anche le condizioni della letteratura. Con lo sviluppo della Repubblica Romana, gli autori iniziarono ad occuparsi di commedie, tragedie, poesie e anche di storia: per citare un esempio importante, nel 123 avanti Cristo nacquero gli Annales Maximi. Su una tavola bianca venivano scritti i fatti più importanti successi durante l’anno dal Pontefice massimo, la massima carica religiosa, e questa poi veniva messa in mostra presso la sua dimora per essere consultata: senza artifici letterari, pure informazioni. Degne di nota anche le lettere private di Cicerone e diverse delle sue orazioni. Molta logica, molta concentrazione sulla politica, una certa raffinatezza: perché lo spirito della cittadinanza romana era come uno status di superiorità, un marchio di fabbrica rispetto al resto del
mondo conosciuto. Quando nacquero gli antenati dei nostri antenati, si dovettero distinguere con i mezzi che avessero a loro disposizione e una grande dose di furbizia e volontà come fece, per dirne uno, Quinto Fabio Massimo Verrucoso. Console per cinque volte, dittatore per una, venne chiamato “Il Temporeggiatore”, perchè affrontò Annibale in una maniera assai moderna: stretta sorveglianza delle sue forze, nessun confronto diretto, cattura di singoli soldati isolati dal resto del gruppo, accampamenti sulle colline in quanto più difficili da raggiungere per i nemici. Nella stessa cultura vigeva anche la leggenda di Gaio Muzio Scevola, colui che mise la mano nel braciere dopo aver fallito l’assassinio del Re etrusco Porsenna e permise a Roma di firmare con lui una pace con un suo stratagemma ingegnoso sul momento. L’uomo medio della Repubblica aveva dei chiari modelli di riferimento che di questi tempi scarseggiano, e non mi stupisco nel vedere sempre più persone rifarsi ai superuomini del passato, sempre
ovviamente tenendo conto delle proprie inclinazioni e credenze personali più o meno guerriere.
2) Naturalmente un governo è forte tanto quanto le condizioni delle sue stesse possibilità, quindi ci serve dare un occhio all’economia. Su questa sono arrivate a noi pochissime fonti concrete che trattassero l’argomento direttamente ma gli storici sono riusciti a ricreare grazie a ritrovamenti archeologici un’immagine relativamente nucleare dell’economia romana attuale; anche se qualche fonte in più a riguardo ci farebbe sempre comodo. Durante il periodo imperiale, degno di nota fu proprio il Mar Mediterraneo: i Romani riuscirono ad acquisire il controllo di ogni sponda (come ad esempio nel periodo dell’Imperatore Adriano, dal 117 al 138 dopo Cristo) e fin dove possibile venne preferito il trasporto via mare per ragioni di risparmio, stimato dallo storico britannico Morris Keith Hopkins come più economico di cinquanta o sessanta volte rispetto al trasporto di merci via terra… per noi Italiani il discorso rimane
sempre quello: anche il nostro mare esige attenzione…
3) Parlare di Roma senza parlare della sua grandezza geografica è possibile, ma risuona innaturale; d’altronde l’ars romana per eccellenza fu proprio quella della sua volontà e capacità di conquista. I confini furono sia artificiali sia naturali; per fare qualche esempio, la Città Eterna già nel periodo della monarchia vide le Mura serviane grazie al quinto re di sette, Tarquinio Prisco, che vennero poi ampliate e abbinate ad un successivo fossato grazie al re successivo, Servio Tullio. Successivamente nacquero le Mura Aureliane. E questi sono solo due esempi di mura romane dell’antichità a cui possiamo aggiungere anche il Vallo di Antonino e il Vallo di Adriano, due fortificazioni situate totalmente in Gran Bretagna. Queste erano collocate rispettivamente all’incirca a metà della Scozia e nel nord dell’Inghilterra. Inoltre sono degne di
nota le strutture che forse racchiudono di più l’essenza romana senza essere famosi monumenti, in quanto la loro costruzione rispecchia l’ordine e la precisione che quella civiltà avesse senza però dimenticare totalmente il mondo pratico: l’accampamento. Al suo interno conteneva più edifici che
dovevano rendere l’esercito stanziato più protetto dai pericoli esterni e capace di svolgere semplici funzioni, ad esempio le palizzate di legno appuntite venivano sostituite da vere e proprie mura se ci fosse stato bisogno di un accampamento permanente per sorvegliare una zona ancora ostile; stessa cosa
per le “abitazioni”, che da tende diventavano case vere e proprie. Potevano esserci torri di guardia vicino alle quattro porte, una per ogni lato. Se vi interessasse impararne l’organizzazione vi invito a ricercare l’argomento più in dettaglio.
Adesso due citazioni interessanti. Ci scrive Sesto Giulio Frontino in “Stratagemata”:
“Pirro re dell’Epiro, istituì per primo l’utilizzo di raccogliere l’intero esercito all’interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare e osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.”
Polibio, nelle sue Storie, ci disse: “Mi sembra che i Romani, i quali cercano di essere molto pratici in questa
disciplina, seguano una strada del tutto opposta a quella dei Greci. Questi ultimi infatti, quando piantano l’accampamento, ritengono sia di somma importanza adattarsi alle difese naturali del luogo stesso, sia perché così evitano di faticare con la costruzione di fossati, sia perché credono che le difese artificiali non possano eguagliare quelle naturali, che il terreno può loro offrire. E così, nel predisporre il piano generale dell’accampamento, sono costretti a cambiare continuamente il suo assetto […] per cui nessuno sa mai
con precisione quale sia il suo posto e della propria unità. I Romani, al contrario, preferiscono fare la fatica di scavare i fossati e di costruire le altre opere di fortificazione per avere sempre un unico tipo di accampamento, sempre uguale e ben conosciuto a tutti. “
Polibio con questa descrizione ha fatto un paragone molto interessante su cui voglio soffermarmi. L’adattabilità dei Greci è sicuramente degna di nota, anche per una questione di risparmio delle risorse personali. Tuttavia i Romani hanno avuto il vantaggio dato dalla scelta di un qualche modello di riferimento che però non fosse pesante e difficile da ricreare. Ciò li ha portati a poter dipendere da qualche punto a loro favore durante le loro campagne militari che loro stessi avessero costruito “in previsione di”. Per fare un breve esempio che farà ben capire, pensate al numero delle porte presenti. Queste dovevano permettere per necessità di potersi spostare e rientrare o uscire dall’accampamento velocemente, inoltre questa discreta presenza di punti d’accesso – che non fossero però troppi da dover tenere sotto controllo – permettevano che un esercito nemico non potesse intrappolare i soldati
rimasti al suo interno in caso di massiccio attacco. Queste piccole perle basate sul buonsenso diedero più probabilità di salvare un maggior numero di uomini, soprattutto nel caso degli accampamenti permanenti. Ma le difese romane furono anche naturali, in un certo senso non disdegnarono totalmente l’idea greca citata da Frontino. Il Danubio e il Reno, il Sahara e il Deserto Arabico: questi son quattro esempi. In più zone geografiche ci furono difese diverse, che spesso si combinarono a quelle naturali locali. La combinazione di entrambe queste idee permise all’Impero di essere potente.
Ora, dopo queste breve analisi sui punti cardine della civiltà romana (e più in generale di ogni civiltà), possiamo passare alla conclusione di questo articolo dedicato alla nascita dell’Urbe con alcune critiche che vanno necessariamente mosse sia per lapalissiane ragioni storiche e sia per altrettante ovvie ragioni
dialettiche e di sviluppo della nostra concezione:
La nostra concezione ed essenza politica di socialisti, ma anzitutto la nostra essenza di uomini originali, forti e decisi ad affrontare questa strada di pietre affilate e roventi, deve essere lucidamente consapevole del fatto che il Pathos di cui Roma si è fatta portatrice nell’epoca storica e cronologica in cui la sua
grande civiltà è vissuta non deve essere considerato come una forma ormai superata della Storia e dello Sviluppo umano, non esiste alcuna singola tappa che, una dopo l’altra, ci debba necessariamente portare verso il nostro Avvenire, Marx ed Engels ci hanno mostrato la decadenza della società,
dell’economia e, quindi, della civiltà capitalistica e borghese.
Bene, Roma e gli Antichi Sapienti dei millenni passati ci hanno insegnato come la Storia sia anzitutto Divenire, e quindi eterno scorrimento e scontro delle nascenti e feconde volontà del cosmo e dell’uomo.
Perciò noi non rinunceremo mai al nostro antico passato bollandolo come un
tempo ormai perduto, al contrario abbiamo il compito di far riemergere tale grande saggezza terrena e razionale all’interno di noi stessi e del socialismo in Italia, seppur ovviamente con le dovute differenze del caso, di certo non si tratta di ristabilire la schiavitù o il politeismo, bensì di far rinascere lo spirito
della grandezza creativa, eterna e fiorente insita negli italiani e nell’umanità tutta.
E sarà qui che l’ “Impero”, nella sua connotazione filosofica, tornerà ad essere il centro di gravità della nostra concezione fieramente internazionalista, ovvero con l’adunata delle forze rivoluzionarie del mondo intero sotto il vessillo-guida di una Roma rinnovata e resa moderna, e quindi di una Roma imperiale e non imperialista e colonialista, l’unione delle grandi forze e della vertigine del progresso futuro che assaliranno le roccaforti capitaliste e reazionarie portando con loro gli stemmi dell’Internazionale di Roma, unione dei popoli, delle civiltà feconde e del genio umano nello scontro contro ogni immobilismo dello stile, del pensiero, dell’energia vitalistica e della pace sociale; l’Internazionale di Roma sarà la morte di ogni oppressione e sfruttamento, della conservazione e la nuova linfa vitale di cui il mondo e l’umanità intera hanno bisogno.
Maria N. Chelintseva, La leggenda romana sul regno di Saturno nella storiografia sovietica
La leggenda romana sui tempi del regno di Saturno appartiene ad una vasta serie di leggende e miti in cui viene descritto un periodo felice nella vita della comunità umana agli albori della sua storia; essi sono presenti nella mitologia e nel folklore di molti popoli del mondo divisi dai confini sia temporali sia spaziali. Questa diffusione universale delle idee affini fa supporre che la loro fonte siano, usando l’espressione di uno degli studiosi sovietici della religione, “determinati tratti della psicologia sociale, sentimenti ed aspirazioni che trovano una loro riflessione nei miti”.
Nella dottrina sovietica i cui limiti cronologici vanno dal 1917 al 1991 possono essere identificati tre indirizzi principali che riflettono diversi approcci all’insieme di idee connesse con la leggenda (in ordine di apparizione): ideologico, storico, religioso-mitologico.
Dopo la rivoluzione d’Ottobre del 1917 nel nuovo Stato sovietico cresce l’interesse per la storia del pensiero socialista. Il ruolo da protagonista nell’elaborazione di questo indirizzo scientifico spetta nei primi anni ’20 a Vjačeslav P. Volgin, il quale studiò la storia del socialismo utopico nel suo insieme come vari gradini che avevano portato all’apparizione del marxismo. Nel suo saggio sulla storia delle idee socialiste l’autore comincia l’esposizione dalla Grecia antica, esaminando la leggenda del secolo d’oro e constatando che l’idea di una condizione felice nel passato appare in un determinato momento di sviluppo sociale presso tutti i popoli, siccome è legata con l’apparizione delle classi sociali, con i primi passi della differenziazione sociale. Le idee dei romani sul regno di Saturno non sono state esaminate dall’autore nel modo specifico. In un’altra sua opera lo studioso nota che la teoria sociale romana in gran parte presenta non solo un’analogia, ma anche un’imitazione dei modelli greci, e a volte una loro semplice riesposizione.
Un’analisi delle idee sociali dei Saturnali alla base delle fonti è presentata negli scritti di Leonid A. Jel’nickij, maggiormente pubblicati nella rivista Vestnik Drevnej Istorii. Nell’articolo del 1946, partendo dal tentativo di ricostruire le idee dei greci antichi riguardanti la vita sotto il regno di Crono, attraverso le immagini satiriche conservatesi nella commedia attica e attraverso la famosa descrizione fatta da Esiodo, l’autore conclude che tali idee erano considerate proprie delle persone più povere e altro non erano che un ricordo idealizzato del primitivo ordinamento gentilizio. I sogni utopici degli oppressi, innanzitutto degli schiavi, sul “secolo d’oro” fornivano loro il materiale per costruire gli ideali sociali e le aspirazioni escatologiche. Sul piano religioso però tale utopia del ritorno del “secolo d’oro” diventava una realtà – per alcuni giorni all’anno, durante le festività di Kroniae-Saturnali. Tali festività erano prima di tutto celebrate dagli schiavi e dalla popolazione più povera e contenevano il ricordo dei tempi felici dell’ordinamento gentilizio, il ritorno alla vita sotto Saturno, che non conosceva la schiavitù e la disuguaglianza sociale.
L’autore riporta le notizie delle altre feste greche che comprendono riti e usanze affini – banchetti comuni di schiavi e padroni, licenze concesse agli schiavi ecc. (Ermie in Creta, Dionisie in Attica, Pelerie in Tessalia ecc.). Il culto di Saturno e l’istituzione dei Saturnali a Roma vanno fatti risalire, secondo lo studioso, al periodo antichissimo; essendo i Saturnali una festa degli abitanti della città di Roma, in campagna troverebbe analogia in una festa chiamata Compitali e legata al culto dei lari in cui gli schiavi godevano pure degli stessi privilegi. All’antichissimo culto dei Lari, protettori della familia degli schiavi, come a quello di Crono, lo studioso ricollega pure le stesse idee sull’ordinamento gentilizio, sul “secolo d’oro”. Passando al confronto tra Crono e Saturno Jel’nickij cerca di rilevare i motivi della loro identificazione operata dagli antichi: presso i romani Saturno, come Crono presso i greci, era il re divino del “secolo d’oro”, portatore delle idee di vita beata, priva di lavoro forzato, della schiavitù, della povertà affamata e della ricchezza prodiga. Tali idee romane erano legate, secondo l’autore, ai ricordi della primitiva vita gentilizia, di cui possiamo giudicare dai resti degli insediamenti gentilizi degli antichi italici – terramare – che permettono di constatare la mancanza di diversificazione sociale dei loro abitanti. Anche la parola pontifex (cioè costruttore o custode della piattaforma su cui veniva collocato il villaggio gentilizio degli antichi italici, con i propri luoghi di culto e la propria necropoli) sarebbe una ulteriore testimonianza a favore del fatto che i ricordi dei romani vanno fatti risalire proprio alle terramare.
Nella successiva elaborazione del tema che prende lo spunto dall’articolo di P. Wendland, “Gesù Cristo come re dei Saturnali” e dal famoso libro di J. G. Frazer, Jel’nickij prosegue ed estende la sua ricerca mostrando “l’equivalente politico delle idee ‘saturniche’” e la sua influenza rivoluzionaria sui fenomeni extrareligiosi. Al centro della sua attenzione sta la rivolta degli schiavi in Sicilia e la figura del capo del movimento, Euno. In questo leader, di origine orientale e proclamatosi re, l’autore trova i tratti di un rex saturnaliorum, sia nelle sue vicende prima dell’insurrezione, sia nel programma delle sue azioni una volta a capo della schiavitù ribellata, programma che altro non era che il ristabilimento del secolo d’oro. In una prospettiva più vasta, l’autore mette in evidenza il legame (più naturale di quanto si possa pensare) tra i movimenti di liberazione delle classi oppresse e le idee utopiche dei filosofi come Evemero, Iambulo, Blossio, traccia paralleli nell’ideologia dei monarchi ellenistici e quella dei capi delle rivolte di schiavi e poveri da Euno a Salvio ad Aristonico e perfino a Tito Minuzio.
Jel’nickij sottolinea la differenza di approcci con il suo autorevole contemporaneo, Nikolaj A. Maškin, il quale nel suo famoso libro del 1949 sul principato di Augusto, “fondandosi su un materiale più vasto e vario, lo usa, però, solo nel suo aspetto religioso o morale,” di fronte all’ottica sociale e politica di Jel’nickij stesso. Ma forse la differenza consiste anche (e piuttosto) nel fatto che laddove Jel’nickij vedeva l’ideologia delle masse oppresse, Maškin trovava l’ideologia dello Stato.
Nella summenzionata monografia Maškin sottolinea che l’idea dell’avvento con Augusto della nuova era, del secolo beato, espressa per la prima volta nella IV ecloga di Virgilio, ha motivi orientali ed è assai scura. Ma la questione non va rilegata all’unico ambito di esegesi storico-letteraria.
Confrontando l’ecloga con il XVI epodo di Orazio e con il poema anonimo intitolato Dirae (“Maledizioni”) lo storico evidenzia come l’idea del “nuovo secolo” non avesse necessariamente una connotazione positiva, riflettendo nella sfera ideologica le perturbazioni di un tempo difficile.
L’eminente studioso di storia romana che si era dedicato al tema della lotta ideologica e politica a Roma alla fine dell’età repubblicana e in genere alle dottrine politiche di Roma antica, Sergej L. Utčenko, nel quadro generale ch’egli traccia dello sviluppo delle idee sull’origine dello Stato e del diritto, annovera il concetto dei quattro secoli all’interno della tradizione mitologica e poetica, contrapposta a quella storica e filosofica. L’autore getta la luce sulla strumentalizzazione dell’antico mito ad opera dei poeti romani che porta a sostanziali modifiche nella sua tradizione. Il mito del secolo d’oro, del resto, presenta interesse per il nostro autore solo in quanto una delle due versioni “mitologiche” alternative dell’origine dello Stato e del diritto, quella appunto che si contrappone all’idea del progresso e quasi diremmo del contratto sociale proposta dai sofisti e sviluppata sul suolo romano da Lucrezio.
Negli anni 70-80 il tema delle origini e delle prime manifestazioni delle idee utopiche sociali viene ripreso dagli studiosi del comunismo scientifico. Nell’articolo dell’Enciclopedia Filosofica dedicato al socialismo utopista, scritto da N. Zastenker (vol. 5, Mosca 1970, 292), l’autore fa risalire gli elementi fondamentali di esso in Europa alle leggende sul “secolo d’oro” in Grecia e a Roma, ricollegando la nascita di tali idee all’apparizione della proprietà privata e della divisione della società in classi.
Il ruolo primario nella formazione di tale mito è svolto da una profonda insoddisfazione delle condizioni esistenti, dalla protesta delle masse contro il gravame sociale e le disgrazie che portava loro il progresso, dalla tendenza ad esprimere, almeno nella fantasia, l’ideale della giustizia sociale legato ai vaghi ricordi della società gentilizia rimasta nel passato ormai remoto.
Nel libro del 1989 di Vladimir A. Gutorov sull’utopia sociale antica l’autore non dedica uno spazio apposito all’analisi della storia del pensiero utopico di Roma Antica, esclusivamente per motivi di mancanza di spazio, sottolineando nella premessa, che tale scelta non è dettata dall’idea di avversione dello spirito romano nei confronti di qualsiasi tipo di utopismo né da quella dell’assenza nell’utopia romana di un carattere innovativo rispetto a quella greca. Alcuni argomenti però vengono trattati nel libro comunemente per i greci e i romani. Tali sono le osservazioni sul regno di Crono/Saturno e i suoi riflessi nelle festività di Kroniae/Saturnali. L’autore vede il carattere di utopia popolare della leggenda sul regno di Crono-Saturno non tanto nel quadro di “rapporti rovesciati” quanto nell’atteggiamento al lavoro; l’idea sull’assenza della necessità di lavorare sorge, secondo l’autore, solo quando il lavoro stesso diventa forzato, e attesta un’attitudine negativa nei confronti dei valori della società fondata sullo sfruttamento. L’autore nota la ciclicità del pensiero utopico popolare: le idee sul “secolo d’oro” collocato in un passato remoto possono, sotto l’influsso di certi motivi, trasferirsi nel presente (in un qualche “spazio magico”) o nel futuro, sotto la forma di un’attesa escatologica del ripristino della condizione ideale, e, infine, riprendere la collocazione nel passato, una volta percepita l’impossibilità di realizzare le speranze utopiche.
Lo studioso contemporaneo di ideologia dell’antichità, autore dell’opera sull’utopia del secolo d’Oro in Roma antica (1993), Jurij G. Černyšov già nei suoi scritti degli anni ’80 pone la questione del legame fra le idee del regno di Saturno (o la vita sotto Crono) e l’utopia sociale propriamente detta. Le leggende e i miti secondo cui l’umanità agli albori della propria esistenza avrebbe vissuto un certo periodo felice è un luogo comune nella mitologia e nel folclore di molti popoli, separati dal tempo e dalla distanza. La causa sta nello scontento del regime sociale esistente, nei vaghi ricordi della società primitiva gentilizia ormai rimasta nel passato. Al mito del “paradiso primitivo” si aggiunge un altro: quello della graduale decadenza della società dall’iniziale età dell’oro a quella moderna, del ferro. È un’idea del Gatz che Černyšov fa sua. Non è corretto parlare del secolo d’oro come di un mito unico, perché variano le sue interpretazioni. Inizialmente si trattava della sturpe aurea degli uomini ossia della vita sotto Crono. Così, Esiodo che espone per la prima volta il mito parla della successione di cinque stirpi umani, rappresentata come lo sterminio della stirpe migliore e la creazione di una peggiore. L’ultima, la più depravata – la stirpe di ferro – è destinata alla morte, il che è importante. Perciò in nessuna circostanza la vita beata sotto Crono, capitata alla stirpe ideale aurea, ormai da tanto trasformatasi in demoni benigni, non poteva tornar presente per la vile e depravata stirpe di ferro. Per la prima volta nella letteratura antica il ritorno del regno di Saturno si proclama nella quarta ecloga di Virgilio che sposta l’interpretazione del mito dalla sfera delle stirpi in quella dei secoli. (Del resto, una spiegazione interessante di questa trasformazione la troviamo in Jel’nickij: secondo lui, essa sarebbe avvenuta ad opera degli etruschi che avevano l’idea del continuo ripetersi dei secoli.). Un’altra differenza è rappresentata dal carattere differente del pensiero stesso dei greci e dei romani: i greci percepivano il mito nel suo aspetto antropologico e genealogico, invece i romani gli attribuirono un carattere politico e storico, ne risultò il passaggio dalle comparazioni per associazione di idee al concetto di un possibile ritorno del secolo d’oro. Sia nella Grecia del IV, sia nella Roma del I secolo av. Cr. si erano creati i presupposti sociali per la nascita delle speranze utopiche di una felicità futura.
L’autore individua due versioni della leggenda di Saturno: 1) l’equivalente romano dell’ex-re del cielo, diroccato; e 2) la leggenda italica di un Saturno che fugge nel Lazio, viene accolto da Giano e insegna agli abitanti locali la vita civilizzata (tarda questa seconda, elaborata da Evemero e diffusasi a Roma dopo la traduzione di Ennio o grazie all’opera di Varrone De vita populi romani).
Il giudizio conclusivo dello studioso è il seguente: se fra il mito e l’utopia esistono tratti di similitudine e compenetrazione, allora il mito del secolo d’oro può essere considerato come il più utopico dei miti, come un mito-utopia.
Nell’ambito del secondo indirizzo, caratterizzato dalla presenza delle opere dedicate alla storia dell’Italia preromana e di Roma arcaica, troviamo soltanto alcuni (pochi) riferimenti all’età leggendaria di Saturno.
L’autorevole studioso di storia arcaica di Roma, d’Italia e della civiltà etrusca, Aleksandr I. Nemirovskij, affermando, in seguito a Giambattista Vico, che “i miti devono avere qualche fondamento sociale della verità”, proclama così l’idea principale dell’approccio storico. Nel suo libro sulla storia della Roma dei primi tempi non tratta, però, concretamente del mito di Saturno. In un’altra sua opera, alla luce delle scoperte dell’etruscologia moderna l’autore chiarisce certi temi della religione e storia arcaica di Roma. Per noi è importante l’affermazione dell’origine etrusca del nome di Saturno, “che era considerato dagli autori romani un forestiero”.
L’illustre studiosa di storia romana arcaica, Ija L. Majak, nella sua opera dedicata alla ricostruzione della realtà romana dell’età dei primi re, in base all’analisi delle fonti scritte e al loro confronto con i nuovissimi dati dell’archeologia e della linguistica, cerca di evidenziare lo sfondo di realtà sottostante alle leggende sul periodo antichissimo della storia romana, procedendo quindi alla valutazione critica dei punti di vista degli studiosi sulla popolazione del Lazio primitivo e sulla sua religione arcaica.
L’ultimo indirizzo, volto allo studio degli aspetti religiosi della cultura romana, riprende il suo sviluppo negli anni ’60 del XX secolo, dopo un’interruzione generale negli studi scientifici della religione avvenuta dopo la Rivoluzione d’Ottobre. In uno dei primi libri dedicati alle questioni religiose della cultura romana, pubblicato nel 1964 da A. I. Nemirovskij, in cui vengono esaminate le prime tappe della formazione della religione romana arcaica, non vi sono menzioni di Saturno.
L’autrice del libro sui fondamenti sociali della religione di Roma Antica, uscito nel 1983, Elena M. Štaerman indica Saturno come uno degli “eroi culturali” dei romani, osservando che le notizie su di essi sono molto vaghe: in tali personaggi si mescolarono i tratti degli antichi re e delle antiche divinità, il che però, nota la studiosa, è proprio anche degli “eroi culturali” degli altri popoli. In seguito E. M. Štaerman analizza l’influenza esercitata dalla traduzione, fatta da Ennio, della “Cronaca sacra” di Evemero e conclude che la conoscenza della sua opera aveva contribuito alla storicizzazione della mitologia romana, alla trasformazione delle antiche divinità nei re dei tempi remotissimi.
Nell’enciclopedia “Miti dei popoli del mondo” E. M. Štaerman, autrice dell’articolo Saturno enfatizza ancora l’importanza dell’identificazione di Saturno con il Crono greco (avvenuta non oltre il terzo sec. av. Cr.): di qua proverrebbe la sua funzione di “dio del secolo d’oro” e il carattere greco della sua festa, i saturnali, la cui forma iniziale “non si conosce”.
Lo studioso che ha prestato attenzione alle questioni generali della cultura romana, Georgij S. Knabe, nei suoi scritti ha posto la questione delle due visioni del tempo a Roma, quella mitologica e quella storica, nonché dei rapporti non sempre facili tra loro. Il tempo mitologico è in sostanza l’assenza del tempo, «la permanenza fuori del tempo, del movimento, dello sviluppo, in generale fuori delle accidenze». Come esempio di questa percezione del tempo l’autore prende le feriae, in cui venivano interdette tutte le azioni legate alla civiltà, cioè create, generate dal corso del tempo. Le feriae erano un simbolo del passato più arcaico, primitivo, anteriore al tempo e alla cultura, che non aveva conosciuto la disuguaglianza e l’inimicizia, la povertà e la ricchezza, la proprietà privata. Altri autori fanno i tentativi di separare l’idealizzazione dei rapporti esistiti prima dell’apparizione della proprietà, per esempio nelle feriae, da quella del diritto di proprietà nel culto dei limiti e confini, del loro protettore Terminus, dei primi re come organizzatori e santificatori della delimitazione dei campi. G. S. Knabe pensa che dal punto di vista della psicologia della cultura e della percezione del tempo questa separazione difficilmente poteva essere molto rilevante. Ne è l’esempio la festa dei Compitali rurali: la proprietà sulla terra e i confini non impedivano di rivivere in certi giorni lo stato beato che non aveva conosciuto inimicizia, violenza e corsa al tempo. Le idee sul secolo d’oro nella letteratura romana sono caratterizzate dall’immutabilità, staticità. Dall’altra parte, “il movimento del tempo è dato immediatamente nell’esperienza di ogni popolo e di ogni persona” e presso i romani queste idee trovano la loro manifestazione nelle credenze e usanze popolari con quella incoerenza che è tipica per gli strati più arcaici della cultura.
A titolo di conclusione si possono paragonare, nel riguardo, le idee sulla vita sotto Saturno con le idee di un particolare periodo mitologico la cui caratteristica ci viene fornita da Sergej A. Tokarev e Eleazar M. Meletinskij seguendo le tracce della scuola psicosociale francese nell’etnologia e storia delle religioni: «Una netta delimitazione del periodo mitologico e del tempo attuale (“sacro” e “profano”) si ritrova perfino nelle più primitive idee mitologiche; spesso vi è una designazione speciale per i remoti tempi mitologici. Il tempo mitologico è il tempo quando tutto era diverso rispetto ad ora. Il passato mitologico non è semplicemente un periodo precedente, ma una particolare epoca della creazione primaria, il tempo mitico precedente all’inizio del tempo empirico».