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Una serie di note in merito alle attuali carenze in ambito di economia nazionale, spaziando da Nord a Sud, su vari settori industriali e non. Note critiche, tanto politiche quanto sociali, che indicano senza troppi fronzoli dove porre l’attenzione per una rinascita italiana concreta. Messe per la prima volte insieme, in ordine cronologico.

L’acciaio italiano

Taranto è uno specchio fedele. Agli Spartani – riferisce Plutarco ne Le virtù di Sparta – era vietato andare per mare: allontanandosi dalla terraferma si sarebbero annacquati i valori; ciononondimeno, alcuni “senza terra” hanno fondato Taranto. Ne danno conto due imponenti colonne doriche.

A Taranto sorgeva la più grande acciaieria d’Europa, costruita quando l’Italia era socialista, ovvero grande. Per “Italia socialista” si intende – ça va sans dire – l’Italia a spiccata, ed efficiente, partecipazione pubblica, dal secondo Dopoguerra fino all’infamante lancio delle monetine. Un’Italia vitale, produttiva nell’industria come nella cultura, bella. Non si diventa quinta potenza mondiale vivacchiando come colonia estiva.

In un’Italia tanto succube in politica estera – una certa entità sta bersagliando i militari del contingente Unifil come fossero un tempio a Baalbeck – quanto drammaticamente povera perché deindustrializzata, è rimasto attivo un solo altoforno, il quarto, producendo al minimo. È in fase di riattivazione – forse domani – anche l’altoforno 1, fermo da agosto 2023: sarà operativo, però, solo fino a febbraio 2025. Lavori di “manutenzione” si susseguiranno. Ne consegue che la produzione dell’ex Ilva è al lumicino: prodotti nel 2023 solo 3 milioni di tonnellate di acciaio, a fronte dei 4 preventivati. In sostanza, un’industria in stato comatoso, tenuta su artificialmente. Nel 2011 produceva ancora 9 milioni di tonnellate, all’apice della gestione Riva si raggiungeva la cifra impensabile di 17 milioni. Attualmente, 2500 addetti su circa 8000 sono in cassa integrazione, con varie formule, addirittura da 4 anni. Questo disastro industriale, a caduta, si ripercuote sullo strategico porto di Taranto: 5,4 milioni di tonnellate (25% in meno rispetto al 2023). Nel 2003 erano oltre 20 milioni.

Labor omnia vincit. Se il greco è la lingua scelta dal Logos, Socialismo Italico sceglie chiaramente il latino, ma oggi il lavoro non c’è; dunque, le persone o, nel lessico della televisione trotzkista, la “gente”, non certo il popolo, sempre più depresse e sempre più rabbiose, girano a vuoto. Niente figli? Date loro cagnolini! Niente lavoro? Tuo figlio può essere un ottimo energy talker (un tizio che via telefono vorrebbe spiegarti che si sta meglio pagando l’energia il triplo)!

L’Italia tornerà grande. Ne siamo convinti. Poiché grande è la sua storia e ultramillenaria la sua Civiltà. Risorgerà con il socialismo, con grandi industrie nazionali e chiari valori civili, ché l’Uomo non è merce e non lo è il frutto del suo Lavoro. Il socialismo non è qualcosa di astratto né di impossibile in Italia: se ne facciano una ragione i quisling italici svenduti allo straniero e la ridicola borghesia compradora, non gli basterà la fuga. Il socialismo ha già guidato la più straordinaria fase di elevazione materiale e spirituale della Penisola. Il futuro è quello che costruiamo oggi.

A Sud del Lavoro

Sarebbero 8 mila gli addetti della calzatura e della pelletteria in cassa integrazione in Campania. A fianco delle grandiose tracce della Civiltà italiana che nel Sud raggiunge vette massime, ci sono – c’erano – anche insediamenti produttivi che, come da tradizione, producevano il bello.

Con questa rubrica sulla dismissione, un abisso nel quale l’Italia – il vero scandalo – è risucchiata in silenzio e senza scalciare, si è deciso di partire ovviamente dal Sud, da quel “Mezzogiorno” che una ridicola narrazione – quella sì “tossica” – ha voluto dipingere come svogliato, “improduttivo”, donde la scelta di abbandonare ogni seria politica industriale per dirottare tutto sull’assistenza, costantemente bisognoso e “da aiutare”, ma anche per sua natura “amorale”, come definito da presunti “sociologi”.

Accanto ai grandi centri produttivi come quello di Taranto, l’ex regina dell’acciaio, c’erano aree di produzione manifatturiera. È del tutto evidente che nel Centro-Sud la diffusione dei distretti produttivi è meno spiccata che nell’altra metà d’Italia; ciononondimeno, ci sono sempre state ‐ oltre alle pregevoli produzioni agroalimentari – delle produzioni manifatturiere di valore, come la moda.

Erano sorte come officine, proto-industrie non grandi ma operose, a cavallo tra ‘700 e ‘800, su impulso di una monarchia, più che illuminata, anticipatrice; il “Mezzogiorno” era ancora in linea con lo sviluppo della storia. Quello di San Leucio – il Belvedere è patrimonio Unesco – è un caso da manuale.

È un modello diverso: officine a misura d’uomo e inserite in un contesto familiare e ambientale, che funzionavano attingendo a un genius loci straordinario, eclissato ma non scomparso.

La libertà nasce con il lavoro, che dà sfogo all’uomo che è naturalmente faber e non consumatore televisivo e social. L’emancipazione dei poveri non si fa con soldi che piovono. L’Italia tornerà grande con il Socialismo, perché è socialista e operaia. Laboriosa e creatrice del bello. Centro del Mediterraneo, cioè del Mondo. Tornerà grande con industrie nazionali, nei settori che fanno il bene della Nazione, ma anche riscoprendo il naturale policentrismo della sua identità, i micro-distretti di San Leucio e di Sant’Agata dei Goti. I nostri figli vedranno un’Italia migliore se combatteremo per questo. Il futuro è quello che costruiamo oggi.

Sulle tracce della faïence

Emilia e Romagna, cioè terra di lavoro e di imprese. E la ceramica vuol dire Sassuolo ma anche, per dirla con il genio di Marradi, il grande Dino Campana, la “città vecchia, rossa di mura e turrita”, cioè Faenza: al grande distretto di Sassuolo, Faenza rispondeva con l’autenticità di una dimensione e di una tradizione artigiana, radicata fin dal Medioevo, diventata proto-industriale nel ‘700, cresciuta con il Boom fino agli Anni ’90, chiaramente, come sempre.

In questa geografia della dismissione, dopo l’ex regina dell’acciaio e la Campania dove non si viveva di solo reddito, l’Emilia-Romagna è una tappa obbligata. Non c’è regione che meglio abbia conciliato una dimensione produttiva ancora umana e di comunità con lo spirito d’impresa che naturalmente porta a varcare i confini e a innovare, non senza buone pratiche di sinergia tra impresa e lavoratori. Certo, non mancano le zone d’ombra.

Il 2023 è stato un anno di profondo rosso per la ceramica, tra prezzi in aumento e contrazione dei mercati, cui si è aggiunta anche la fine di larga parte dei bonus edili. Risultato: un crollo dell’export di circa il 20% e 6 mila richieste di cassa integrazione. Qualcuno dovrebbe sommare le varie migliaia di richieste distretto per singolo distretto: 8 mila in Campania, 6 mila Emilia-Romagna e via così fino a raggiungere le proporzioni mostruose che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vuole svelare.

Secondo le stime, in Italia, il settore della ceramica si compone di circa 250 imprese, con oltre 26 mila addetti. Oltre alla concentrazione di Sassuolo e al “piccolo e bello” caso di Faenza, da menzionare anche quello di Civita Castellana e di Montelupo Fiorentino.

Dove non è arrivata la guerra, dove non è arrivata l’esplosione dei prezzi, dove non sono arrivati anni e anni di assenza di una politica industriale (infrastrutture verso i porti e verso il Nord, formazione), ci ha pensato la natura. O, meglio, incuria dell’uomo. Il Lamone, da sempre indispensabile e per l’acqua e per l’argilla, ha esondato devastando il territorio faentino.

L’Italia tornerà grande quando sarà di nuovo libera e socialista, partendo dalle sue industrie eredi della tradizione artigiana migliore al mondo.

Piombino non ha più le ciminiere. Ed è contenta.

Niente lavoro. Nessuno deve più fare qualcosa di concreto. Digitale, “green” e, soprattutto, “turismo” che è “il nostro petrolio” (sempre qualcosa da estrarre) e, quindi, nel lessico quisling di un’Italia occupata e crepuscolare, la ex Enel di Piombino, costruita nel 1977 per raffinare idrocarburi, deve essere riconvertita in una struttura “turistico-ricettiva”. Non si sa quale, come, quando. E poi l’immancabile green, quando la terra è stata abbandonata e i pescatori tormentati dalle norme UE.

Le ciminiere, che per decenni hanno puntellato il golfo di Follonica, vengono giù con, ci tengono a precisarlo, “microcariche”. Sì, perché bisogna pure farlo quasi sottotraccia. Senza che nessuno osi porre il problema della dismissione o della fallacia del modello proposto cioè fare “un innovativo polo” per il “turismo sostenibile”, con plurime “opportunità” – non sono specificate quali – e strutture dedicate “all’attività fisica, allo svago e alla nautica”. Ma, naturale, non al lavoro. Cosa potrebbe mai andare storto? È tutto talmente “green” e “innovativo”!

Il tutto assume i tratti di una sorta di capitozzatura – il rilassamento delle torri nel Medioevo – o, per essere più brutali, di castrazione. Ovviamente, la “spettacolare” – termine usato da qualche inconsapevole gazzetta – demolizione scatena il giubilo di sindaco e presidente di Regione. Quanto al vivere, cioè vivacchiare, di solo turismo, si tratta di una tale idiozia che non merita altre parole.

È triste destino che accomuna tutti gli stabilimenti Enel. A Trino Vercellese, uno dei primi impianti a ciclo combinato, si passa al fotovoltaico; a Porto Tolle (Rovigo) vogliono farci un “villaggio turistico”, a Montalto di Castro – al tempo la più grande – la confusione regna sovrana; va un po’ meglio a Porto Marghera, dove infatti si è costruito un impianto sempre per la produzione energetica (comunque non c’è termine di paragone con il recente passato).

Tanti casi e un unico comun denominatore: la dismissione, l’abbandono e la distruzione. È uno dei lati del capitalismo nella fase attuale, che vuole liquidare definitivamente le produzioni del Novecento e, dunque, i lavoratori.

L’Italia che non comunica

La dismissione è sotto gli occhi di tutti e anche la ridicola narrazione mainstream fatica a puntellare la baracca di fandonie con le quali gli italiani vengono anestetizzati, alla stregua di “pecore matte”. 20 trimestri consecutivi di calo della produzione industriale rappresentano uno dei periodi più foschi dal Dopoguerra, con oscure previsioni almeno fino al 2030. Le flessioni maggiori, ammette candidamente l’Istatsi attestano nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-15,4%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,7%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-8,1%). Tutti settori nei quali la grande Italia socialista (1945-1994), che tornerà, primeggiava, garantendo sviluppo, benessere, pace sociale, elevazione materiale e spirituale. Questo sì che è Socialismo Italico!

Anche se questi dati spiazzanti non hanno ancora diradato la coltre di fesserie, sono tempi di disvelamento. Cadono le bugie, si fa un bagno di realtà. O una doccia gelata. E non solo perché il gas costa. Indi per cui, un Kennedy – chiaramente – denuncia il cartello farmaceutico e i suoi lucrosi, loschi affari nel cruciale quadriennio appena concluso; ciononondimeno, Trump ha come obiettivo anche l’Europa ed ecco perché Musk, scioccamente eletto a paladino della libertà (la democrazia liberale trotzkista è proprio alla canna del gas), ha attaccato prima di tutto la Germania. È una guerra.

A proposito di dismissione. l dato più allarmante è quello sul crollo delle telecomunicazioni in Italia in poco più di un decennio. Passato – chiaramente – in sordina, dimostra da un lato quanto sia fragile, per non dire truffaldino, il modello “digitale” (gig economy, 5 g e altre simpatiche sigle), dall’altro conferma lo squarcio, l’abisso tra l’oggi e il 2010. Prima del fatale 2011. I ricavi nel settore delle telecomunicazioni hanno subito una contrazione (meno 9% circa nel 2023 rispetto ai cinque anni precedenti) che non si spiega in altro modo se non nel drastico impoverimento della popolazione e nella fine della produzione industriale, come dimostrato nel caso dell’acciaio, della calzatura o della ceramica. Ma ecco l’aspetto più eclatante, messo in evidenza da uno dei pochi siti che mantiene al centro la verità, Il Tazebao, dove si legge che, rispetto al 2010, “la resa delle telecomunicazioni ha visto sfumare 15 miliardi di euro, per un -3.3% medio annuo. Anche i piani infrastrutturali per il 5G e le gigabit society, forse sull’onda della propaganda che fu al tempo condotta contro la Huawei, faticano a decollare: gli investimenti sono infatti calati dell’8,6%”. Sicuramente svendita della rete Tim non ha influito.

Il lusso è passato di moda

Non basterà un cappottino firmato contro questo gelido inverno. E dire che fino a poco tempo fa, appena 3-4 anni, si parlava – ci si riempiva la bocca – di “distretto del lusso” in Toscana. Sì, perché dopo il virus erano balenate alcune idee particolarmente fosforescenti: puntare solo sul lusso, il turismo “sostenibile”, la start-up digitale e la giga-valley, una spolverata di Pnrr che non manca(va) mai.

Ecco, oggi mancano al settore del lusso, anche per le conseguenze di ciò che è iniziato 4 anni fa, ovvero la guerra, almeno 50 milioni di consumatori al mondo. La Russia, che a quanto pare fa schifo, si è comprensibilmente orientata su altri mercati complice l’autoflagellazione degli europei occupati da Londra-Washington, la Cina è in economia di guerra e l’unico bene di lusso che acquista è l’oro, in grandi quantità.

Qualche narratore quisling, sperando qualcuno se la beva, verga, sull’agenzia stampa dell’ENI, di “stanchezza da lusso”, ma gli italiani si stanno risvegliando complici i morsi della fame e il freddo senza gas. Non si può pensare di vendere all’infinito e predicare pure il “lusso sostenibile”, né si può tornare potenza mondiale “puntando” sul solo turismo.

L’Italia è stata grande, ma lo è stata come potenza proletaria e industriale, cioè socialista. In questi giorni, nei quali Carlo Sama, il genero di Serafino Ferruzzi, racconta sulla tv più trotzkista di tutte come furono liquidati suo suocero nel 1979 e suo cognato Raul Gardini nel 1993 – vera pietra miliare nel processo di deindustrializzazione dell’Italia -, si fanno i conti con la fine di un modello. E inizia il disvelamento della verità. L’export è calato del 5%, sono circa 2 miliardi in meno, nei primi 6 mesi dell’anno in corso.

Dispiace per coloro che hanno avuto l’idea anch’essa luccicante come una borsetta di fare outlet per il “turismo di qualità”. Prima c’erano veri e propri bus turistici che recapitavano gli avventori asiatici in questi “luxury outlet”, per altro del tutto scollegati dal contesto ambientale e architettonico, del Valdarno e non solo. Chissà come se la passano…

Né botteghe né colletti bianchi. E manco più l’ape!

Ci siamo presi una settimana di pausa per leggere, ascoltare e riflettere. Le notizie non mancano tanto che se ne potrebbero fare ben tre di appuntamenti settimanali sulla dismissione, ma siamo necessariamente degli irregolari altrimenti non staremmo qui e finiremmo per credere ai buoni e ai cattivi, al green e al gender.

Sono state settimane fertili e non è mancato il nostro contributo. A Perugia, a Bologna no perché l’ha spuntata la censura (non deve stupire in quanto la Russia è sotto attacco dall’Artico al Caucaso come al tempo della Guerra di Crimea); prima ancora a Firenze con il lancio del Manifesto per un’Italia grande, cioè socialista.

Di contro c’è l’Italia reale. Gli artigiani, grandi creativi ma anche un po’ bottegai, hanno presentato il conto: secondo Confartigianato, la guerra in Ucraina è costata 155 miliardi, tra mancate esportazioni e bollette, alle imprese italiane. E chi paga? Loro. Cioè, loro e gli eventuali avventori. Sempre più rarefatti. Perché tra costi e insicurezza, maranza – sottoprodotto dei modelli culturali deviati – che spaccano vetrine, le strade si svuotano di negozi e di persone. Rarefatti e, bisogna dire, sempre più poveri questi avventori, formattati a un diverso modello di consumo. Basti vedere gli “spazi domestici” della réclame del cibo “da asporto”: non un libro, non un quadro, mobili piatti. In più, mai come negli ultimi anni, si è assistito a una tale violenza. Confcommercio – per par condicio – ha rilevato la scomparsa di 111 mila negozi in 12 anni (circa il 20% in meno). A integrazione di quanto sopra, la guerra totale è contro la Russia, ma anche contro l’Europa.

Gli anni ’80 segnarono l’emersione di un nuovo ceto, al quale il Socialismo di allora, necessariamente riformista, seppe dare dignità e legittimazione politica. Dopo i robot che hanno mandato in soffita gli operai turbolenti, sembra proprio che i primi a cadere siano i colletti bianchi. Quelli che hanno studiato e digerito la narrazione corrente. Loro, nonostante credano e applichino tutto. E, infatti, proprio su di loro si abbatte la scure della dismissione. Perché c’è un’intima coerenza, no? Succede a Siena con un caso da manuale di staff leasing, cioè licenziamento, di quadri intermedi, quelli che nell’espansione della ricchezza e nella sua necessaria redistribuzione emersero. Il capitalismo politico vuole semplificare il quadro.

Il cerchio si chiude con l’ape, non l’aperitivo ma lo storico mezzo italiano che ancora si intravede nelle terre agricole, simbolo di un’Italia piccola sì ma affaccendata e laboriosa. Sarà prodotto in India; del resto, Meloni e Modi si intendono. Dice. Non più a Pontedera dopo 76 anni. Questo non si dice, ma è un fatto. I sindacati sminuiscono. “Si tratta di una riconversione industriale”. Certamente.

Si torna al solito punto. Cari socialisti, cari italiani: la penisola sarà il punto focale di un caos che non ha precedenti recenti nella trimillenaria storia italiana; ciò, se correttamente letto e correttamente vissuto, può essere la finestra per una trasformazione radicale delle istituzioni del Paese.

Torino non tira più e altre considerazioni sulla dismissione

Nella ex capitale dell’auto va male anche il mercato immobiliare. Uffici e magazzini – sentenzia Nomisma – restano invenduti. Pari alla tragedia dell’acciaio italiano c’è solo quella dell’auto, con Stellantis che si prepara a un altro giro di decimazioni. Nessuno deve più lavorare: come si spengono gli altiforni, si disattivano gli operai, ma prima i furbetti della fabbrichetta, i “colletti bianchi”.

La dismissione non è semplicemente la fine di una fase del capitalismo, che si adatta ed evolve sempre, lo spegnimento della fase delle grandi fabbriche o dell’operaio massa che il Paradiso non l’hai mai nemmeno sfiorato, per onorare il grandissimo Volonté a trent’anni dalla scomparsa. Pochi se ne sono ricordati, soprattutto a sinistra in questi giorni. Che continui a essere scomodo e a colpire “al cuore”, anche da morto?

Post-fordismo, post-industriale, post-lavoro. Tutte etichette farlocche partorite dalla mente di giornalai o “sociologi” trotzkisti fino al midollo, cioè corrotti, anti-italiani, anti-socialisti. La dismissione significa meno lavoro, meno qualità e meno vita, meno peso politico, meno valore in una scena internazionale magmatica, dove sono richiesti, oggi più che mai, numeri.

Certo, l’Inghilterra, perché è Londra a comandare e non Washington, già dalla fine degli anni ’70 aveva iniziato a dismettere. Ken Loach – con i suoi Paul, Mick, la sua Riff-raff – non nasce a caso ma con il duro confronto con una realtà che era una punta avanzata, lo stesso confronto che rese meritori – e spiazzanti – gli scritti di Engels, più scienziato sociale – non sociologo! – rispetto al fine economista di Treviri. Forse Basilico (sta per partire una bella mostra a Roma a Palazzo Altemps) colse, non senza ironia, le trasformazioni che partivano dagli ex capannoni.

Fummo quinta potenza mondiale. Fu vera gloria? Forse, allora, non fu compreso appieno il significato di quella trasformazione che partiva dalla casa-madre, che oggi sta arrivando a compimento. Il capitalismo, che ha assorbito tutto e ha fatto propri anche quei paesi che erano più lontani, ha optato per un sistema di comando più leggero, che non richiede lavoro e stato sociale.

Siamo in mezzo al guado ed è la parte più difficile. Da questo magma qualcosa deve pur rinascere e l’Italia è il paese dove il dissenso è più diffuso, seppur disorganico. È presto, ma succederà, e con una corretta lettura politica potrà cambiare le cose. Il Socialismo è il collante tra l’avanguardia, che necessariamente guarda più avanti, e una massa sempre meno massa, che deve essere ri-politicizzata. Che deve ri-scoprire la politica.

È finita la carta!

La modernità, cioè la nascita e il trionfo del capitalismo, ha significato una semplificazione del quadro preesistente. Dalla galassia medievale – miriade di poteri e diritti ma raccordati nel cosmo cristiano – a una visione unitaria, organica, binaria in certi momenti. Oggi è sempre più univoca e repressiva, perché il capitalismo ha stravinto e, dunque, semplifica e rimuove l’antagonismo, che sempre ispira una dialettica. La varietà italiana non serve più. Era stata sopportata negli anni della Guerra Fredda, fino al Muro, e forse l’essere quinta potenza mondiale aveva tratto in inganno un po’ tutti, quando dalla casa-madre si puntava già sulla finanza, liquidando persone e operai.

Dal 1989 il capitalismo, che già flirtava con il blocco sovietico, ha conquistato quei mondi che ne erano esclusi, dove può sfruttare, estrarre, avvelenare. Vietnam, Cina, India, la Russia stessa. Certo, queste nazioni e questi popoli hanno storie, tradizioni, sono degni eredi di culture millenarie che non sono state dimenticate ma si esprimono in una quotidianità viva, caotica ma ordinata. Di conseguenza, i Brics sono molto di più del movimento dei “non allineati” ed esprimono una postura diversa per stare nella modernità. La Turchia diventa potenza manifatturiera ma, in sincronia, riscopre la religione e guarda alla umma e non è un caso che la persona chiave sia stata Erbakan.

Nel microcosmo italiano, industria e provincia marciano insieme. La provincia è il serbatoio di genius loci, l’industria è la prosecuzione delle botteghe medievali ma più in grande, con meno sicurezze sociali dei tedeschi ma anche con meccanismi meno alienanti di produzione rispetto ai corrispettivi anglosassoni. È una trasformazione molto più profonda, insomma, quella che sta avvenendo. La dismissione sta liquidando un’eredità plurisecolare. Come nel caso di Fabriano. Del resto, la quota di ricchezza prodotta dall’industria, informa il Centro studi di Confindustria, è scesa dal 19,9% del Pil pre-Covid al 18,1 di oggi. Non basterà l’appartamento di nonna…

Articoli tratti da Rete Associativa per il Socialismo Italico