Di Enea Stella
Shanna Luciani è una delle nuovi voci nella narrativa storica contemporanea. Con la sua trilogia “Maledetto il cuore”, ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, ha conquistato un pubblico sempre più ampio, grazie a una prosa curata nei dettagli e capace di restituire l’intensità emotiva di un’epoca drammatica, oltre alla capacità di fondere una rigorosa ricerca storica con un intreccio coinvolgente e profondo.
Il primo volume, “Maledetto il cuore” (disponibile qui), pubblicato nell’agosto 2021, trasporta i lettori tra le montagne abruzzesi durante l’arrivo del conflitto, raccontando come la guerra stravolga la vita degli abitanti di San Rocco. L’autrice non si limita a descrivere eventi storici, ma scava nelle emozioni e nelle scelte dei suoi personaggi, facendo così emergere la lotta interiore che ognuno di loro affronta di fronte alla violenza e all’incertezza del conflitto. Il secondo capitolo della saga, “Maledetto il cuore: Herzeleid” (disponibile qui), uscito nel novembre 2022, eleva ulteriormente la posta in gioco. Le vicende si espandono dal microcosmo abruzzese al teatro internazionale del conflitto, mentre i protagonisti si trovano a confrontarsi con dilemmi morali sempre più complessi. Il terzo volume, “Maledetto il cuore: Zerfall” (disponibile qui), uscito il 29 settembre 2024, chiude questa trilogia con un finale che promette di essere altrettanto intenso e sorprendente. Il titolo, che in tedesco significa “decadimento” o “collasso”, lascia presagire un’escalation sempre maggiore di emozioni, con il destino ormai inarrestabile dei protagonisti.
Questa trilogia tuttavia non è solamente un viaggio attraverso gli orrori della guerra, ma anche un’indagine intima sulle sfumature della condizione umana. La forza dei personaggi creati risiede nella loro complessità: non esistono eroi senza macchia, né antagonisti puramente malvagi, al centro della narrazione, c’è l’ambiguità delle scelte che devono affrontare, un tema che l’autrice ha esplorato con grande sensibilità. Shanna Luciani riesce a trasportare i lettori nei luoghi e nei tempi in cui le sue storie si svolgono, rendendo vivi paesaggi, emozioni e drammi personali. “Maledetto il cuore” è una saga che parla non solo della storia collettiva di un’epoca devastante, ma anche delle storie individuali di chi ha cercato di sopravvivere e trovare un senso in un mondo in rovina.
In seguito è riportata l’intervista con rispettive domande e risposte.
La trilogia “Maledetto il Cuore” è ambientata in un periodo storico-politico complesso, quello della Seconda Guerra Mondiale. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio questo periodo per raccontare la tua saga?
In verità io non volevo scrivere una saga sulla Seconda Guerra Mondiale. Era un periodo storico di cui, all’epoca, sapevo molto poco e a cui non mi interessavo. Il tutto è nato un po’ da sé ed ha preso vita da un racconto tramandato nella mia famiglia, che riguardava la mia nonna materna e il paese in cui è nata e cresciuta, Fano Adriano in provincia di Teramo (a cui è appunto ispirato il San Rocco del libro). Il racconto di mia nonna, che ha vissuto sotto l’occupazione tedesca per un periodo, mi tornava in mente in maniera abbastanza prepotente a quel tempo, finché ho deciso di provare a scrivere una scena che avevo in testa e che sarebbe poi diventata l’incipit del romanzo. Da qui è nato il nucleo della storia, da cui ha preso avvio tutto il resto. Fin da subito, mi è stato chiaro che avrei dovuto raccontare questa storia da una prospettiva “rovesciata” e, per farlo, avevo bisogno di documentarmi molto e in maniera approfondita. Così è nato Maledetto il Cuore.
Uno degli aspetti più apprezzati dai lettori è la profondità psicologica dei personaggi. Come hai lavorato alla costruzione di Eva, Arthur e Friedrich? Ti sei ispirata a figure storiche reali o a persone della tua vita?
Ho sempre considerato questa storia come una storia di personaggi più che di eventi, per cui per me è sempre stato fondamentale lo scavo interiore, l’introspezione dei personaggi. Ho cercato di renderli al meglio basandomi sia su personaggi reali, come figure storiche più o meno conosciute, sia su persone che hanno fatto parte della mia vita. Ad esempio, nel personaggio di Friedrich sono confluiti aspetti di personalità diverse che ho “incontrato” facendo ricerche su ufficiali tedeschi. Uno in particolare è stato un giovane tenente (Paul Riedel) caduto nel 1944 sul Monte Tezio, in Umbria. Avevo trovato delle testimonianze che lo descrivevano come “particolarmente amato dalla popolazione locale”, al punto che è tuttora sepolto nel cimitero del paesino di Migiana di Monte Tezio. Un altro esempio, stavolta tratto dalla mia storia familiare, è il personaggio di Franco, il fratello di Eva. Ho liberamente preso ispirazione da un mio prozio, che disertò dal Regio Esercito dopo l’Armistizio. Non esattamente per fare il partigiano, ma quasi. Mi serviva il prototipo di un giovane tenace, stanco della guerra, e avvezzo a una vita difficile e ho trovato la perfetta ispirazione in questo mio parente.
A tutto ciò, aggiungo che cerco sempre di immedesimarmi io stessa in ciò che scrivo. Infatti, inevitabilmente, nei miei personaggi ho messo molto di me, del mio carattere. Per scherzare dico di usare il metodo Stanislaviskij, quello usato dagli attori. Ma è uno scherzo fino a un certo punto, perché penso che per restituire la complessità psicologica di un personaggio (che, per citare Hemingway, deve essere innanzitutto una persona!) è importante sapersi calare nei panni altrui, siano quelli di un ufficiale tedesco, di un partigiano o di una crocerossina.
Nel romanzo, la guerra viene descritta da un punto di vista profondamente umano, lontano dalla classica contrapposizione tra “buoni” e “cattivi”, anche nei confronti dei soldati tedeschi. Come hai mantenuto questo equilibrio nel raccontare personaggi così complessi, evitando gli stereotipi?
È proprio sforzandomi di restare sul piano “umano”, quindi mettendo da parte tutto ciò che avevo imparato negli anni su quel frammento di storia, facendo tabula rasa dei preconcetti che, come tutti, avevo anch’io. Qui la ricerca ha giocato un ruolo chiave, soprattutto per quanto riguarda le testimonianze di persone che hanno vissuto l’occupazione tedesca. Io partivo dai ricordi di mia nonna, che ne conservava un ricordo dolceamaro, ma nel tempo ho potuto ascoltare anche altre testimonianze in cui emergeva una realtà diversa da quella “canonica”. Emergevano persone, non stereotipi, appunto. Bene e male, poi sono due concetti complessi e spesso soggetti a interpretazioni disparate. E la verità e che in un contesto come la guerra, qualsiasi guerra, si trovano mescolati tra loro molto più di quanto pensiamo.
La sfumatura tra bene e male, soprattutto in contesti di guerra, è un tema centrale nella tua trilogia. Quanto è importante per te, come autrice, esplorare l’ambiguità morale nei tuoi personaggi?
Penso che la contrapposizione tra bene e male sia un tema che affascina dall’alba dei tempi, forse perché è suscettibile di tante sfumature e di tante interpretazioni, come dicevo prima. Io penso che tutti, nessuno escluso, portiamo in noi sia l’uno che l’altro; quindi, da un certo punto di vista tutti siamo potenzialmente “ambigui” a livello morale. Ed è proprio ciò che vorrei emergesse da questa storia. Dico sempre che non ci sono buoni o cattivi: potenzialmente tutti i miei personaggi sono entrambe le cose. Per fare un esempio: nel primo volume, Arthur diserta dalla Wehrmacht. In teoria, in una narrazione canonica, sarebbe il personaggio positivo perché “rinnega” la sua appartenenza alla fazione negativa. Ma Arthur è mosso principalmente da impulsi egoistici, tra cui la vendetta. Arriva a mettere in pericolo non solo sé stesso, ma anche i partigiani che l’hanno accolto, per vendicarsi su Friedrich. Al contrario, quest’ultimo, che in teoria dovrebbe essere l’ufficiale ligio al dovere (un prussiano, insomma!) si scopre molto più “malleabile”, anche tormentato e diviso tra coscienza e dovere. Al punto da arrivare a stringere un accordo coi partigiani, che ovviamente dal suo punto di vista di ufficiale non sono solo il nemico, ma dei veri e propri criminali, perché al di fuori da ogni tipo di legalità bellica, se così possiamo chiamarla. Quanto a Eva, lei vuole darsi da fare e trovare un suo posto in un mondo travolto dal caos, e lo fa “aiutando il nemico”, perché di fatto il suo compito è prendersi cura dei soldati tedeschi. Vive questa cosa in maniera abbastanza conflittuale, finché non si rende conto che non sta aiutando il nemico, ma degli esseri umani, che non sono poi tanto diversi da lei.
Nei volumi successivi questo attrito tra bene e male, o per meglio dire la loro coesistenza, viene ancora più accentuata. Diventa emblematico nel personaggio di Joachim, che viene introdotto in Herzeileid, ma che avrà un ruolo chiave in Zerfall. È un ufficiale delle Waffen SS, è mosso principalmente da sentimenti e pulsioni negative ma, e lo dico senza anticipare niente, in più di un’occasione rovescerà completamente questa prospettiva. Quindi persino personaggi che agiscono come antagonisti, portano in loro anche elementi positivi. Questo perché, come dicevo all’inizio, penso che anche nella vita reale portiamo dentro di noi entrambi gli elementi e creare un personaggio totalmente positivo o totalmente negativo avrebbe banalizzato una narrazione che invece è e deve rimanere complessa.
Hai avuto riferimenti letterari o fonti particolari che ti hanno ispirato nella scrittura della trilogia?
Nella ricerca che ho portato avanti (e che porto avanti ancora) ho tratto spesso ispirazione da fonti biografiche, anche molto disparate tra di loro. Nella bibliografia di Maledetto il Cuore si possono trovare sia documenti, memorie soprattutto, di partigiani che di ufficiali tedeschi o, anche, personalità vicine al partito fascista. Questo perché nella ricostruzione del periodo storico ho deciso di basarmi su entrambi i lati, prendendo ciascuna fonte per quello che è: una memoria, quindi una ricostruzione soggettiva. Ma tutte queste memorie formano la Storia, no? Almeno per me è così. In ciò mi sono stati molto utili due testi riguardanti la storia della provincia di Teramo, Tempo Nuovo e Teramo e il teramano negli anni della guerra civile, di Elso Serpentini, in cui sono raccolte per lo più testimonianze orali su cui poi si sono svolte ricerche e indagini per restituire un quadro più chiaro e completo. Per quanto riguarda la stesura del terzo volume, fondamentale per ricostruire l’ambientazione delle retrovie del fronte di Anzio (e soprattutto sulle condizioni dei civili nelle zone attraversate dal fronte nei Castelli Romani) ho trovato particolarmente utile il memoriale di padre Italo Mario Laracca, Tra le rovine di Velletri. Sono pagine che seguono l’occupazione della zona fino agli ultimi momenti prima della liberazione da parte dell’esercito alleato e restituiscono un quadro molto umano di quei momenti concitati.
Nel primo volume assistiamo a intrecci emotivi e conflitti interni molto intensi. Come hai sviluppato queste dinamiche tra i protagonisti in un contesto storico così difficile?
Penso sia proprio il contesto a fare da terreno fertile per entrambi. La guerra, e ancor più questa guerra, porta a galla tutte le contraddizioni e di conseguenze i conflitti interiori che i personaggi hanno già dentro di loro. Se a ciò uniamo anche le emozioni, i sentimenti, il quadro si complica ancora. La storia tra Eva e Friedrich, ad esempio, che in qualsiasi altro contesto storico sarebbe una normale storia d’amore, calata in quella specifica realtà si porta dietro tutta una serie di ostacoli sia esterni (il modo in cui una donna che si relaziona al nemico viene percepita dalla popolazione, per fare un esempio), sia interni (è giusto o sbagliato innamorarsi di uno che, in teoria, dovrebbe essere il tuo nemico, e il cui compito, di fatto, è combattere persone come tuo fratello partigiano?); tutto questo esaspera l’interiorità di entrambi, ma offre diverse prospettive interessanti e, credo, alcuni spunti di riflessione. Anche qui, nel corso delle ricerche, mi è capitato di leggere testimonianze di relazioni simili nate in questo contesto e a colpirmi è stato il carico di dubbi e dilemmi che i protagonisti di queste storie reali si portavano dietro.
Nel secondo volume, la trama diventa più corale, con l’introduzione di nuovi personaggi. Come hai gestito l’integrazione di questi nuovi volti mantenendo l’attenzione su Eva, Arthur e Friedrich?
È stato abbastanza facile, perché in realtà dalla seconda metà del volume, le storie di tutti finiscono per intrecciarsi e amalgamarsi tra di loro. Una volta spostata l’attenzione da Roma all’Abruzzo e quindi avendo di nuovo tutti i personaggi riuniti in un unico contesto la cosa è venuta da sé. Ho sempre considerato Maledetto il Cuore come una storia corale, ciascun personaggio ha la sua importanza e il suo spazio e cerco sempre di bilanciarli al meglio, senza che uno prenda il sopravvento sull’altro. Considero di particolare rilevanza, in un romanzo, la costruzione della trama e dell’intreccio narrativo, per cui faccio molto attenzione a finché ogni sottotrama abbia la sua giusta rilevanza sia individuale sia nel complesso della narrazione. Questo è diventato tanto più importante ancora col terzo volume, dove la trama già di per sé è più intricata, appunto, e dove devo destreggiarmi con quattro punti di vista.
La natura, specialmente nel primo volume, sembra quasi diventare un personaggio a sé stante. Quanto è stato importante per te far emergere la forza dei paesaggi abruzzesi nella narrazione?
Questa è probabilmente una mia piccola fissazione. Di solito considero il paesaggio come un elemento caratterizzante della narrazione, non soltanto un semplice sfondo quindi cerco di integrarlo come meglio posso. Le ambientazioni in Abruzzo si prestano particolarmente, perché sono luoghi in cui l’uomo e la natura, soprattutto in quei tempi, avevano ancora un rapporto molto interconnesso. Per di più, sono zone che conosco bene, avendole visitate spesso ed essendo anche legata a esse. Mi viene da pensare all’asprezza della roccia, della montagna, che emerge soprattutto nelle scene in cui si vedono i partigiani, che appunto si nascondevano sulle montagne intorno al paese. La geografia richiama un po’ il loro modo di vivere, disagiato, duro. Un altro elemento ricorrente è la neve, che diventa anche un elemento integrante nella narrazione quando in scena c’è Arthur, perché per lui l’associazione inevitabile con questo elemento è ciò che ha vissuto durante l’assedio di Stalingrado.
Oltre all’Abruzzo, l’azione si sposta in diverse zone, tra cui Roma e il fronte di guerra. Quanto lavoro di ricerca storica hai dovuto svolgere per ricreare in maniera accurata questi differenti contesti?
Nel caso del secondo volume, la ricerca è diventata ancora più capillare. Spesso e volentieri sono andata di persona suoi luoghi che descrivo. In questo mi ha facilitato il compito il fatto di aver vissuto non molto lontano da quei posti per gran parte della mia vita. Conosco bene quello che possiamo definire l’entroterra della testa di ponte di Anzio. Oltre a questo, mi ha aiutato molto la ricerca sui testi e volumi; per fortuna la bibliografia sullo sbarco di Anzio e sull’occupazione di Roma è ben nutrita. Anche in questo caso, poi, sono riuscita a risalire a testimonianze di persone che hanno vissuto e partecipato agli eventi che mi interessavano. Molto utile, per quanto riguarda il fronte di Anzio, è stato anche poter visitare il Museo dello Sbarco.
Per Roma, invece, e soprattutto per il personaggio di Cesare, d’ispirazione è stato un testo in particolare: Achtung Banditen! di Rosario Bentivegna, in sostanza un memoriale sul periodo in cui militava con i GAP di Roma. Non solo, un testo che ho letto e riletto per ricavare il più possibile informazioni sulla capitale in quel periodo, ma da parte della fazione opposta, è stato Roma Nazista di Eugen Dollmann, colonnello ad honorem delle SS, nonché interprete ufficiale nelle relazioni Italia/Germania. Entrambi i testi, in modo diverso, mi hanno aiutata a ricostruire la Roma di quegli anni, le dinamiche che avevano luogo sia da una parte (quella dei gappisti, appunto) che dall’altra, ovvero quella degli occupanti tedeschi. A tal proposito, nello specifico, grazie a entrambi i volumi ho potuto scrivere la scena dell’attentato a via Rasella, presente in Herzeleid, attraverso gli occhi di Friedrich, basandomi sulle testimonianze sia di Bentivegna (che fu uno degli autori dell’attentato), sia di Dollmann.
Durante il processo di scrittura, c’è stato un momento in cui la storia ha preso una direzione inaspettata, sorprendendoti come autrice?
Questa è una cosa che succede spesso e volentieri. Per quanto dietro ciascun romanzo ci sia una buona dose di progettazione, arriva sempre il momento in cui la storia prende una piega diversa e comincia a seguire un corso tutto suo. Nel primo volume questa cosa è stata abbastanza “forte”. I miei lettori sanno che esisteva una versione totalmente diversa, mai pubblicata, in cui le cose andavano in maniera del tutto diversa rispetto a come si svolgono invece nella versione finale, quella che appunto si può leggere oggi. Nella prima versione, sul finale, Eva sarebbe dovuta scappare insieme ad Arthur. Avevo anche scritto questa parte, quando mi sono resa conto che non poteva funzionare, che la storia che volevo raccontare non poteva andare in quella direzione. Risultato? Ho riscritto un buon 80% del libro, cambiato il finale, ed ecco qua la versione che i lettori conoscono di Maledetto il Cuore. Questo accade anche nel piccolo, in episodi marginali o in aspetti minori del libro. A volte l’idea che ho in mente evolve in maniera diversa rispetto ai miei piani e lo fa sempre in positivo, ogni aspetto che ho modificato si è rivelato migliore di quanto avessi preventivato. Posso dire che il mio metodo di lavoro si basa tanto sulla progettazione quanto sull’improvvisazione – passatemi il termine!