congresso

Conferenza tenuta dal prof. Giorgio Canuto

Gentili Signore e Signori, se avrete occasione di entrare nel cortile dell’Università di Torino, leggerete in un’epigrafe che nel 1506 il vostro concittadino Erasmo da Rotterdam si laureò in teologia in quell’Ateneo. Ciò poté avvenire perché a quel tempo tutte le Università usavano un’unica lingua, il latino: i professori, da qualsiasi Paese provenissero, potevano capirsi fra di loro come fossero connazionali. Quest’uso universale del latino fra i dotti del Medioevo è ben noto e spesso citato come una situazione invidiabile. Ma non tutti sanno come questo uso generale venne meno per lasciare il posto alle lingue nazionali dei diversi Paesi d’Europa. Sembra che il primo a rompere la tradizione sia stato Bombast von Hohenheim, soprannominato Paracelsus, che nelle sue lezioni cominciò a usare il tedesco. Fra i primi a usare una lingua nazionale in scritti scientifici è da ricordare l’italiano Galileo Galilei: non certamente perché non conoscesse il latino ­ dato che ancora nel 1510 lo scriveva ­ ma perché era davvero convinto che l’antica lingua non fosse più adatta alle nuove idee.

Nel corso del Medioevo il latino visse in una condizione speciale, non naturale, come strumento di quel tesoro culturale letterario, filosofico e religioso che si era diffuso in tutta l’Europa dopo la caduta dell’impero romano, benché non fosse più usato come lingua vivente, parlata ogni giorno da un popolo. Quando l’umanità ebbe qualcosa di nuovo da aggiungere a questo precedente patrimonio culturale, ecco che l’antica lingua non fu più sufficiente. Ciò si rese evidente soprattutto nei nuovi campi del sapere: nella scienza, soprattutto nella matematica e nella fisica. È questo il principale motivo che rende assurda l’idea, periodicamente riproposta, che il latino possa ancor oggi servire come lingua internazionale della scienza. Del resto è da dubitare che il latino abbia mai svolto quel ruolo di lingua mondiale di cui oggi si sente l’esigenza. Basta pensare che quando Erasmo si laureò a Torino, l’America ancora non aveva questo nome, era solo un nuovo continente scoperto da appena 14 anni; e la maggior parte dell’Africa era ancora sconosciuta; e nello stesso Mediterraneo perdurava l’influsso delle lingue greca e araba, soprattutto nei campi più moderni della chimica e della medicina. E che dire dell’estremo Oriente, dell’immensa area dominata dall’influsso della millenaria cultura cinese? Dunque, se osserviamo obiettivamente la storia, dobbiamo concludere che in realtà non è mai veramente esistita una lingua comune per gli studiosi di tutto il pianeta. Il latino fu soltanto, per un certo periodo, la lingua della cultura nel territorio limitato in cui si era diffuso il cristianesimo. È ben noto quel che accadde in seguito, in tempi più vicini a noi.

All’inizio ebbe un ruolo rilevante il francese, in seguito il tedesco predominò in molti campi, ultimamente si evidenzia l’importanza dell’inglese, soprattutto per influenza degli Stati Uniti. È per questo che cinquant’anni fa, prima della prima guerra mondiale, mio padre mi disse: “Figlio mio, se vuoi poter usare gli strumenti necessari agli studi superiori, tu devi entrare all’Università essendo in grado di leggere rapidamente e correntemente testi in francese, tedesco e inglese”. Se aggiungete che noi italiani possiamo capire senza difficoltà i testi in spagnolo e portoghese, potete constatare che lo studio consigliato mi poteva davvero fornire gli strumenti per attingere direttamente le informazioni dai testi e dalle riviste scientifiche del mondo: necessità primaria in campo scientifico. Tuttavia anche se si conoscono tutte queste lingue (cosa rara fra gli studenti attuali, oberati da un pesante carico di nuove materie di studio) rimane sempre un gran numero di testi non direttamente consultabili: testi scritti nelle lingue nord­europee, in quelle slave, fra cui soprattutto il russo, e nelle lingue orientali, dal turco al cinese al giapponese. La situazione si è fatta via via sempre più caotica e difficile. Inoltre alla scienza è necessaria non solo una lingua atta all’informazione scritta, ma anche una lingua che serva al diretto contatto personale fra gli scienziati, sia nei congressi e convegni in cui si discutono problemi comuni, sia nei viaggi da paese a paese per comunicare i risultati delle proprie ricerche, o per studiare o insegnare in Università straniere.

Noi stessi possiamo constatare dalle nostre esperienze personali che poter leggere un testo non basta: occorre conoscere la lingua a un livello che permetta di parlarla, di discutere, di fare un discorso su temi tecnici e non solo sulle semplici vicende della vita quotidiana. Da ciò derivano le difficoltà presenti in tutti i congressi scientifici, nei quali bisogna decidere prima di tutto quali lingue verranno usate. So di congressi che hanno dovuto essere annullati per la mancanza di questo accordo preliminare. In seguito, nel corso dei convegni, arriva il tormento delle traduzioni, lunghe e stressanti. E infine si giunge alla doppia o tripla pubblicazione di tutti gli atti del congresso nelle due o tre lingue di lavoro scelte, con evidente spreco di lavoro e di relativi costi. Ricordo un congresso di psicologia infantile a Milano. Il primo giorno si tradusse tutto nelle tre lingue di lavoro ufficiali: italiano, francese e inglese. Il secondo giorno si disse: per risparmiare tempo faremo solo le traduzioni in francese e italiano, dato che gli anglofoni presenti capiscono più o meno il francese. Il terzo giorno, dato che mancava il tempo, si decise di non fare più traduzioni. Fu annunciato che i testi delle relazioni sarebbero stati in seguito inviati ai congressisti. Ma allora, non avremmo potuto restare a casa risparmiando il tempo e le spese del viaggio? Altrettanto insoddisfacente è la traduzione simultanea, fatta da interpreti chiusi in cabine e muniti di cuffie e microfono. In genere questi interpreti richiedono di avere sotto gli occhi il testo scritto; il risultato è in pratica un riassunto di quanto effettivamente detto. Spesso questo tipo di traduzione risulta comico a causa di frequenti equivoci ed errori. Ricordo un congresso nel quale il relatore francese disse che in un esperimento aveva messo una certa sostanza in “pots de terre” (vasi d’argilla). Ma il traduttore capì “pommes de terre” e tradusse “patate”. Gli ascoltatori rimasero stupefatti e non afferrarono il senso di un esperimento del genere. Dunque non resta altra soluzione che l’uso contemporaneo, da parte di tutti, di una sola lingua, così che ognuno possa direttamente capire l’oratore e direttamente esprimersi. Ma quale lingua scegliere? Finora non si è raggiunto un accordo, ma anche se lo si raggiungesse, scegliendo per esempio l’inglese, rimarrebbe comunque una grande difficoltà. Quanti studiano questa lingua a scuola per anni e anni? E quanti riescono a possederla allo stesso livello della propria lingua materna? È molto difficile raggiungere un tale livello in una lingua estera: altrimenti non sarebbe così difficile ­ e così ben pagata ­ la professione di interprete. Nel partire per Rotterdam ho comprato in stazione un giornale della sera. Vi è presentata, con adeguata fotografia, una signora torinese appena assunta come interprete dell’ONU per le lingue inglese, italiana e tedesca. Poi si legge che è di madrelingua tedesca, che ha sposato un italiano e che è vissuta per diversi anni negli Stati Uniti… E nel presentarla come una rarità si aggiunge che la carriera degli interpreti è molto difficile e che il loro reddito può superare le 25.000 lire al giorno, cioè circa 150 fiorini. È ragionevole pretendere che uno scienziato, oltre ad aggiornarsi costantemente nella propria specializzazione, debba anche caricarsi di queste difficoltà linguistiche? Certamente no. Nell’attuale situazione abbiamo così due categorie di scienziati: quelli in grado di parlare liberamente nei congressi, e quelli che possono più o meno balbettare e capire qualcosa … Dunque la soluzione non può essere soltanto la scelta di una sola lingua comune, ma deve anche prevedere che questa lingua sia così facile da poter essere pienamente apprendibile da chiunque senza grande spreco di tempo. Ebbene, una simile lingua, in grado di essere appresa rapidamente da qualsiasi popolo non solo a livello superficiale, ma a fondo, come la propria lingua materna, esiste già: è l’esperanto. Ora non ho il tempo di analizzare singolarmente i fattori che rendono così facile l’esperanto: mi limito a dire che è una lingua con una struttura semplice e regolare, con un geniale sistema di derivazione che rende possibile la formazione di nuove parole da poche radici, ecc. Esiste un’intera serie di sperimentazioni concrete, effettuate in oltre 70 anni di vita della lingua: non fantasie ma sperimentazioni rigorose, effettuate in centinaia di corsi condotti in tutto il mondo, presso i più diversi popoli.

Già prima della guerra il famoso Istituto Pedagogico Jean Jacques Rousseau di Ginevra pubblicò precisi dati psicotecnici derivati dall’osservazione degli studenti di 80 corsi di esperanto avvenuti in paesi dei cinque continenti. Si constatò che la facilità di apprendimento dell’esperanto è pressoché uguale per tutti i popoli e che i risultati sono mediamente sei volte superiori a quelli riscontrabili nello studio di lingue nazionali estere. Recentemente è stato ospite a Torino il prof. Suzuki, docente giapponese di fisiologia nell’Università di Tiba. Intervistato dai giornalisti ha dichiarato: “Ho studiato a fondo, per anni, il tedesco e l’inglese, e tuttavia quando uso queste lingue mi sento sempre inferiore a chi le parla dalla nascita. Ho invece studiato l’esperanto quasi per gioco, per alcuni mesi, e già oggi lo parlo con la stessa facilità con cui parlo in giapponese”. Del resto, anch’io ho fatto la stessa esperienza. E l’hanno fatta tutti coloro che hanno studiato lingue estere e anche l’esperanto. E dunque, perché non usare una lingua così facile nella scienza? Già dall’inizio l’autore, il Dott. Zamenhof, pubblicò traduzioni di saggi scientifici, soprattutto di medicina, dato che lui stesso era medico. E fin dall’inizio molti scienziati furono attratti dalla semplicità e precisione della lingua e ne divennero fautori. Scienziati eminenti, come Neville, Sebert, Bourlet, membri dell’Accademia Scientifica francese, il fisiologo premio Nobel Richet, Bujwid, famoso collaboratore del più famoso Pasteur, e molti altri scienziati, docenti e Rettori universitari, sono stati e sono esperantisti. Già all’inizio delladiffusione dell’esperanto furono fondate la Tutmonda Kuracista Asocio (Associazione Medica Mondiale) e la Internacia Scienca Asocio (Associazione Scientifica Internazionale) che diedero vita a riviste specializzate. Furono la culla della lingua internazionale in campo scientifico. Bisogna tener conto del fatto che l’uso di una lingua nella vita quotidiana e nella letteratura è molto più semplice e facile rispetto al suo uso per scopi scientifici, per i quali si rende necessaria una vasta serie di parole speciali e di precisi termini tecnici. In effetti il principale problema, oggi ben risolto, è quello della terminologia. Anche da questo punto di vista l’esperanto è oggi pronto per la sua introduzione nel normale uso in campo scientifico.

Sono già apparsi oltre 110 lessici tecnici concernenti 44 scienze e specializzazioni. Fra questi sono da citare quelli di Anatomia, Architettura, Astronomia, Aviazione, Botanica, Chimica, Educazione, Elettrotecnica, Farmacia, Ferrovie, Filosofia, Fisica, Giurisprudenza, Linguistica, Matematica, Medicina generale, Metalmeccanica, Musica, Navigazione, Pedagogia, Psicologia, Radiologia, Scienza generale, Statistica. Sono in preparazione quelli di Aeronautica e Radiotecnica. Il Japana Esperanto­Instituto (Istituto Giapponese di Esperanto) ha compilato un lessico tecnico generale con i termini apparsi negli ultimi anni. Questi lessici non sono il frutto dell’elaborazione teorica di commissioni speciali incaricate di creare i nuovi termini necessari. Così come avviene in tutti i campi d’applicazione della lingua, anche qui l’acquisizione di nuovi termini avviene in maniera del tutto naturale, attraverso l’osservazione e la registrazione di lemmi spontaneamente e frequentemente già presenti nella relativa letteratura. Infatti non solo esistono speciali riviste scientifiche­tecniche in esperanto, fra le quali la Scienca Revuo (Rivista Scientifica) e la Medicina Revuo (Rivista Medica), ma anche testi scientifici soprattutto di medicina, antropologia, botanica, radiotecnica. Fra questi è da citare, fra l’altro, il libro di Ajsberg Fine mi komprenis la radion (“Finalmente ho capito la radio”), scritto in esperanto e tradotto in 16 lingue, e il libro del danese Paul Neergraard Pri la vivo de la plantoj (“Sulla vita delle piante”), così interessante che viene ora tradotto in ancor più numerose lingue. Se la maggioranza degli uomini non fosse acciecata dai pregiudizi contro l’esperanto, queste opere sarebbero immediatamente alla portata di tutto il mondo senza bisogno di traduzioni. Altra importante fonte del linguaggio scientifico è data dai sunti finali in esperanto che sempre più spesso appaiono in diverse riviste scientifiche nazionali. Ho citato più volte il lavoro degli scienziati giapponesi. Bisogna dire che in questo campo sono davvero dei pionieri. Sono loro che costantemente pubblicano in esperanto intere dissertazioni, bollettini specialistici ecc Ricordo il Bollettino dell’Istituto Medico di Nagasaki, del mio collega medico legale Asime Azada, e il Bollettino dell’Istituto Astronomico dell’Isola Tateno. Le lunghe guerre in cui sono stati impegnati i giapponesi, hanno in certa misura ridotto questa intensa attività. Tuttavia subito dopo la fine dell’ ultima guerra 85 eminenti scienziati giapponesi, fra i quali 68 docenti universitari, hanno sottoscritto l’impegno di produrre ogni anno almeno una dissertazione in esperanto, e di aggiungere sunti in esperanto agli altri loro articoli pubblicati. Ma il grande vantaggio che l’esperanto può apportare al campo scientifico è il diretto uso orale della lingua. Per convincersi della speciale idoneità dell’esperanto a questo uso, basta partecipare alla cosiddetta Somera Universitato (Università Estiva) nel corso di un Congresso Universale di esperanto. In essa rivive il fenomeno dei “clerici vagantes” medievali: gli studenti di allora che, senza preoccuparsi della diversità delle rispettive lingue nazionali, percorrevano l’Europa passando da un’Università a un’altra. Ed ecco che nella Somera Universitato docenti dei più diversi paesi ­ francesi, tedeschi, italiani. statunitensi, giapponesi, inglesi, danesi, jugoslavi ecc. ­ possono svolgere le loro lezioni di fronte ad ascoltatori appartenenti a 25­30 diverse nazioni; e tutti possono parlare fluentemente delle proprie materie, ed essere direttamente capiti, senza l’aiuto (o meglio, senza l’ostacolo) degli interpreti. Si è forse rinnovato il miracolo della Pentecoste?

No, si è semplicemente attivata la buona volontà di uomini che hanno dedicato 40­60 ore della propria vita allo studio di questa lingua logica e facile. Hanno osato rompere la routine per cui si preferisce subire e contorcersi nei labirinti del plurilinguismo ­ a causa del quale nei congressi scientifici gli ascoltatori in grado di capire sono sempre pochi, mentre la maggior parte delle relazioni rimane ignota alla maggior parte degli interessati. Lo strumento atto a risolvere queste situazioni è già perfettamente pronto. Un buon numero di scienziati già lo usano con profitto. Ho la certezza di ciò. Nel 1866 il filosofo tedesco Nietzsche scrisse che certamente un giorno l’umanità avrà una lingua comune, e certamente un giorno l’uomo viaggerà volando nell’aria. Abbiamo già assistito alla realizzazione della seconda previsione del filosofo. Sono sicuro che anche la prima si realizzerà, e che ciò avverrà non grazie a una difficile lingua nazionale, ma grazie alla semplice, bella, flessibile lingua internazionale. E nei secoli a venire, quando il suo uso sarà cosa normale e quotidiana, certamente ci si meraviglierà nel constatare quante opposizioni e quanti pregiudizi si sono dovuti superare per raggiungere un risultato tanto logico e ovvio.

Da L’esperanto luglio/agosto anno 2011