Di Sov

I media italiani, da sempre spada e scudo del sionismo, si sono ora lanciati in una nuovissima crociata: una guerra asprissima e senza tregua contro l’nPCI, reo di aver commesso l’ “infausto crimine” di svelare al mondo nomi e cognomi dei più grandi sostenitori di Israele nel nostro paese e di aver chiamato, ancora una volta, al boicottaggio delle aziende coinvolte nel sostegno a Israele. A quanto pare, ai sionisti non piace quando il loro supporto al genocidio di 260mila persone (stima conservatrice) viene reso pubblico. Che si tratti forse di una presa di coscienza?

Ma oltre al disgusto causato dal servilismo senza fine della politica e, di conseguenza, dei media verso Israele, si aggiunge anche una dimensione di ipocrisia. Gli stessi media che ora si scagliano con tale furia contro l’nPCI sono gli stessi che si divertivano a stilare liste di proscrizione contro “Gli uomini di Putin”, “Gli agenti del Cremlino”, “I filorussi d’Italia” e altri titoli da prima pagina. Allora non ci fu alcuna grande reazione, nessuna condanna significativa, sebbene qualche voce osasse alzarsi contro tali atti; la maggior parte della politica rimase in silenzio. Ma ora che i ruoli si sono invertiti, si grida al neonazismo e all’antisemitismo.

Non era forse neonazismo quando coloro che osavano dissentire sull’invio di armi alle milizie ucraine venivano messi a tacere? Oppure la libertà di espressione esiste solo quando ci si allinea al sistema? La domanda è retorica, ma è sempre necessario far notare l’assurda ipocrisia della classe dominante. Loro hanno voluto validare le liste, e ora che raccolgono ciò che hanno seminato, non gli va più bene.

Oltre a questa palese ipocrisia, questa nuova crociata mediatica è un segnale non solo di come ormai il servilismo verso il sionismo sia profondamente radicato nella politica, ma anche di come il dissenso sia sempre meno tollerato. Per quanto il gesto dell’nPCI possa essere considerato di impatto, è molto più contenuto rispetto ai gesti visti in altri paesi. Basti pensare alle ben più pesanti proteste alla DNC o alle occupazioni di massa negli Stati Uniti. Ne è stato fatto un enorme caso mediatico, nonostante l’nPCI non sia certo un partito di massa né particolarmente rilevante nelle grandi sale della politica, che tuttavia ha reso disponibile una lista di boicottaggio che potrà decisamente essere presa a modello da altre formazioni di diverso spessore.

Questo dimostra non solo che, per quanto non sembri, l’apparato statale è recettivo anche verso le realtà più piccole, ma anche che esiste una certa paura del dissenso. Il che è, in realtà, un segnale positivo: indica che, per quanto disperatamente cerchino di negarlo, l’opinione pubblica è contraria alle scelte del governo. Per questo si cerca di generare reazioni così viscerali e negative, riportando in uso termini che fanno comodo solo in queste occasioni.

Un altro elemento da considerare è che la classe dominante sta perdendo la guerra dell’informazione. Basti vedere il totale fallimento della propaganda di guerra in Ucraina e quella per cercare di sanificare l’immagine di Israele. La classe dominante ha capito che ormai non ha più il monopolio dell’informazione e, se continuerà a non averlo, non sarà capace di gestire né la futura guerra né tantomeno le prossime crisi cicliche del capitalismo. Il recentissimo arresto di Durov ne è una prova, dopo che la stessa UE aveva fallito nel tentativo di imporre restrizioni sufficienti alla piattaforma per bloccare i contenuti contrari alla narrazione ufficiale.

Da questo possiamo trarre la conclusione che non solo esiste terreno fertile per il dissenso, ma che questo è il momento giusto per fomentarlo e organizzarlo, prima che la classe dominante possa implementare i suoi metodi più violenti e repressivi. Ma per fare ciò c’è bisogno di un dissenso basato su una politica alternativa seria, che metta non solo i bisogni del popolo al primo piano, ma anche l’indipendenza nazionale. In questo momento decisivo, è necessario pensare oltre le sfilate di piazza o la politica da quattro soldi sui social e concentrarsi sul vero coinvolgimento popolare, prima che questo venga reso veramente difficile dalla censura di guerra o da simili misure draconiane.

È inoltre essenziale che questo dissenso non sia timido e mal celato, ma forte e ben visibile. Se ci si nasconde, non si raggiungono le masse, ma si viene comunque raggiunti dal governo, come dimostrato dall’nPCI, una formazione un tempo poco conosciuta che ora ha decisamente più fama, o per meglio dire, infamia. Solo un messaggio forte, unificato e popolare può sperare di trasformare le paure dell’amministrazione coloniale che governa il nostro paese in realtà.