Di Lorenzo Maffetti


«Batti tempo, attento che finisci male//Fondamentale avere a che fare co’ roba brutale//(Non dormire) Una visione minimale è rischiosa//Quando ti trovi a fottere con roba mostruosa»

Questo è il ritornello di “Non dormire” canzone del rapper romano Noyz Narcos e ho scelto questo ritornello come apertura dell’articolo per denunciare la “visione minimale” del marxismo in relazione ad una tematica specifica – che affronterò nel corso di questo scritto -, la cosiddetta “vita di strada” e la musica rap, che nasce dalla strada e affronta le paure, le disgrazie e le problematiche legate a quella vita. Il marxismo, oggi, è purtroppo afflitto da fin troppe visioni banali e superficiali, che fanno capo ai suoi annosi esponenti, almeno in Italia, e sarebbe d’uopo fare una coscienziosa e razionale autocritica (anche se dubito fortemente che certi boomer possano accettare altre visioni al di fuori della loro) per ritornare con i piedi per terra ed effettuare una analisi della realtà per come è e non per come vorremo che fosse.

Difatti, come qualsiasi filosofia che voglia porre le basi per l’indagine del mondo circostante, il marxismo deve confrontare sé stesso con là realtà e di conseguenza i risultati dell’indagine sono diversi in base all’epoca in cui questa viene effettuata. La filosofia marxista, nata nell’800, ha ricevuto subito il “battesimo di fuoco” ritrovandosi di fronte alla nascente società capitalistica, dapprima con Marx ed Engels, poi con Lenin, quando il capitalismo aveva già raggiunto una diversa fase da quella precedente e così via; oggi la “struttura” è sempre quella dell’economia capitalista, ma la società è anche profondamente cambiata, tanto in superficie quanto nei suoi meandri, e ha portato delle “novità” , sulle quali è bene focalizzarsi. E una di queste novità, veramente fresca, è la musica rap.

Ogni periodo storico, nei diversi territori, ha avuto i suoi poeti, i suoi filosofi e, in generale, i cantori di quella precisa epoca, nel bene e nel male, e oggigiorno la nostra forma di poesia pienamente ancorata nella vita di tutti i giorni è senza dubbio la musica, che essa sia nuova o già un po’ più vecchiotta, e la musica rap rientra a pieno in questa categoria, poiché ogni artista, cantando o il proprio vissuto o le disgrazie di una generazione, riesce a cogliere tanto il meglio quanto il peggio di questo mondo e delle diverse situazioni in cui gli uomini si ritrovano nella loro vita, dall’amore e le sue relative delusioni alla nostra personalità, dalla mancanza di denaro alle storie di rivincita personale. Una canzone come “Lewandowski IV” di Ernia è un pugno dritto nell’occhio di chi ci vuole male: “Perché in fondo sanno che io non li fotto/Io gli metto pure le palle nel culo/Negli ultimi anni hanno tutti la gang/Che ti fan le scarpe se ti fan la fete/Io me ne sbatto di diss e stronzate/Perché basto io per spaccarti la tete”; poi troviamo il “Lewandowski VI” , con delle sarcastiche barre sull’italiano medio che prende la politica come uno scontro fra tifoserie: “Esco nudo sul terrazzo/La folla è in visibilio, sono tutti quanti pronti a salutare vostra santità sto cazzo/Divento coglione, prendo e difendo la nazione/Dal divano con un tweet, l’importante è l’intenzione”. Ma Ernia non è solo questo, è anche una penna che calca il viaggio introspettivo e punge: “Ho metà mondo sotto i piedi, ma l’altra metà mi schiaccia/Mi tiene fermo al suolo, le ginocchia sulla faccia/Strofino una lampada, so che c’ho tre desideri/Tutto bene” è una bugia che dico, poi voglio s’avveri/T’ho invitato dentro la mia fantasia volentieri/Ma adesso ti prego d’abbandonare i miei pensieri” (“Certi giorni” , Ernia ft. Nitro); e ancora: “Già vedo le mie mani su volante in corsa/Che lascio i miei problemi di una vita scorsa/Quell’auto sembra dirmi: “sali ora o non te ne vai più”/O no?/E ho visto un mondo eppure sto cercando ancora dentro me qualcosa che manca/E se l’ho avuto è andato tra le dita come sabbia insieme al tempo che passa/Vorrei non dirmi: “oh, ehi, ciò che volevo è tutto qui”/E perdo tutto e non so come, forse devo avere un buco dentro la tasca” (“Qualcosa che manca” Ernia ft. Rkomi).

E di citazioni ce ne sarebbero a valanga, ma queste erano esemplificative della “varietas” degli artisti e di come molte canzoni siano rivolte al pubblico giovanile che, nel vivo dell’adolescenza o poco al di fuori di essa, si ritrovano a fronteggiare le insidie della vita. Questo tema lo ritengo fondamentale, poiché noi giovani di quest’epoca siamo quelli catapultati nel vivo e nel tragico del nostro periodo storico, senza aver vissuto, per ovvie ragioni anagrafiche, quello passato, e senza aver effettuato il passaggio di secolo (almeno non coscienziosamente), e a tutti gli effetti siamo quelli che cercano un proprio posto nel mondo, e come tali non possiamo essere sottovalutati nell’analisi della realtà e nella pratica per il suo cambiamento. Per il momento mi sono limitato a citare soltanto due artisti, Noyz Narcos ed Ernia, anche se ce ne sono moltissimi altri validi nella cosiddetta “scena italiana” (ovvero la congerie di rapper più o meno in vista in Italia), come ad esempio Salmo e Fabri Fibra, che nel corso degli anni hanno partorito testi di enorme spessore culturale, ma anche Massimo Pericolo e via discorrendo. Ma l’artista che personalmente mi ha colpito di più, sul piano sia emotivo che umano, dal punto di vista della compenetrazione di me stesso nel testo ascoltato, è un certo Kid Yugi.

Conosciuto anche come il “rapper di Massafra” , il suo luogo natìo in Puglia, sono ormai due anni che è entrato a far parte della scena italiana, concependo tre album: “The Globe” (novembre 2022), “Quarto di Bue” (aprile 2023) ed infine “I nomi del diavolo” (marzo 2024). A mio avviso basterebbe soltanto il primo dei tre album citati per fare di questo ragazzo una pietra dell’attuale scena italiana, ma in questi tre e nelle loro canzoni ritroviamo tutto ciò che compone il “modo di rappare” di Kid Yugi: infatti i suoi testi sono crudi (come nel rap di vecchio stampo) e per questo altrettanto profondi, alcuni hanno uno scenario macabro e richiamano alla violenza dilagante mediante la violenza musicale, altri evocano immagini impattanti di delusione, rimorso e dolore, ma tutti sono fortemente introspettivi. E poi, un dettaglio fondamentale, sono le citazioni, e il rapper massafrese fa della citazione culturale il suo cavallo di battaglia. Porterò alcuni esempi senza parlare di tutta la discografia, perché per l’analisi servirebbe quasi un libro:

Questo è il testo della canzone “Quarto di Bue” , un vero e proprio manifesto di violenza musicale; ma non è tutto, nella canzone “Sturm und drang” (citazione al romanticismo tedesco) rincara la dose:

E poi “Non ho mai visto lo Zio Sam prendersi un fungo atomico” , una frecciatina agli americani. Sempre in questo album (per rimarcare la varietas del rap) troviamo anche altre due canzoni importanti, ovvero “Massafghanistan” (di cui parlerò in seguito) e “Sintetico”. Questa canzone insieme a “Il filmografo” e “Lilith” compone una trilogia rap sul tema dell’amore, che incrocia diversi temi, quali la delusione, il rimpianto, la sconfitta personale, ma anche la finzione, la rabbia e la voglia di ricominciare. Reputo importante trattare questa tematica perché l’amore – un concetto così ampio, affascinante ma che causa anche molti traumi – è centrale nella vita degli esseri umani, specialmente in adolescenza, e come tale può essere anche determinante nelle scelte e nella vita, che vada bene o che vada male. In “Sintetico” un pezzo recita così:

In questo pezzo, a mio avviso, è condensato il significato tutto di questa canzone: il non riuscirsi a togliere dalla testa ciò che ormai è finito, concluso ed irrecuperabile (“ti ho in testa come un debito”), darsi la colpa e farsi del male (“è il male che mi dedico, è quello che mi merito”), ammettere che “non ti odio e non ti celebro” e che “rimani un bel ricordo del tempo in cui ti relego” , e poi vedere spazzata via questa ammissione (“Mi hai rubato l’anima, hai lasciato carne e scheletro”), fino alla contraddizione lampante del “Dimmi che ne vuoi ancora, ne necessito”. E in tutto questo, come nel nome della canzone, sta il significato stesso dell’amore per l’artista – che sia sul piano teoretico che empirico mi sento di appoggiare: una sintesi di contraddizioni, per l’appunto un catulliano “odi et amo” , come emerge nell’ultimo pezzo prima del ritornello finale:

L’altro pezzo importante, e a tutti gli effetti ancora più poetico, filosofico ed impattante è “Il Filmografo” , che parla di amore da una prospettiva diversa rispetto alla letteratura canonica, in un modo ancora più vicino a noi giovani; e come accennavo prima, lo scenario è ancora più cruento ed emotivo, ma per questo non meno vero, anzi, ritengo che sia l’esemplificazione di molte relazioni amorose nei giorni d’oggi, specie fra i ragazzi del nuovo secolo.

Nei primi tre versi c’è subito la contraddizione tipica della narrazione del rapper di Massafra: egli infatti, nonostante la distanza fisica con la persona amata, riesce lo stesso a sentirla e il forte legame emotivo fra di loro è testimoniato dal “freddo del tuo sangue” e dal “caldo delle tue lacrime” , eppure annuncia che “ci faremo entanglement anche ad un megaparsec” , nel quale utilizza la terminologia della fisica per indicare che riesce a sentire la sua amata nonostante la distanza più o meno incolmabile. Negli altri tre versi ritorna, ancora, la contraddizione: l’umiliazione vicendevole nella relazione fa sentire colui (o colei) che umilia come una persona importante, che ha il coltello dalla parte del manico e ha la parvenza di decidere l’immediato destino della coppia, ma l’amore è un qualcosa che può superare l’umiliazione, e infatti esso è “come andare in tandem, uno guarda già al futuro l’altro gli guarda le spalle” , come ad indicare che nella coppia non si è affatto da soli, ma si deve lavorare in due, com’è giusto che sia, affinché le cose funzionino. Nei successivi quattro versi l’amore è descritto come assolutamente intenso, anche se può durare poco, come il sesso, ma ha anche dei tratti tossici: le mille domande, il “ti metti pesante” e il “mi prendi il torso a morsi” , quasi come se il narratore fosse una mela che viene lentamente mangiata. Nei restanti versi della prima parte troviamo un’ammissione: l’autore, infatti, dice di avere “mille volti” , una personalità, quindi, poliedrica, probabilmente molto ricca (ma anche problematica quando si tratta di intrecciarsi con un partner) la quale trova conforto nel fumare e nel bere: una sorta di “Oscuro Passeggero” nel quale rifugiarsi quando le cose vanno male. Eppure, “il finale è immutabile” e “l’occhio del regista è ineluttabile” , impossibile da battere, e Kid Yugi si riferisce al destino, che la coppia non potrà cambiare, quindi tanto vale andarsene e “mettere al sicuro in tasca un ultimo bacio volante” , quello che conta davvero.

Ed ecco come termina la canzone, con l’ultimo pezzo, ove il nostro artista parla di caducità della vita, rimpianti ed emozioni che lui stesso fatica a percepire.

Avevo detto, in precedenza, che la “trilogia amorosa” di Kid Yugi fosse composta da un’altra canzone ancora, ovvero “Lilith” , appartenente all’ultimo album, della quale non mi occuperò qua, ma a cui vi rimando nelle note per l’ascolto.

Kid Yugi, però, e il rap in generale, non è solo “amore” , ma anche violenta critica sociale e narrazione cruda di quello che accade nelle “strade” delle città, e molti suoi pezzi afferranno in pieno questa critica e parlano della condizione da lui vissuta in prima persona. Il ritornello della canzone “King Lear” (ft. Sosa Priority) parla chiaro:

Sappiamo tutti cosa sono quelle “bustine di autostima” a cui l’autore si riferisce, e penso che sappiamo altrettanto bene quanto dilaghino nelle strade e fra i ragazzi senza che qualcuno cerchi la soluzione. In “Paradise now” esprime la sua condizione, pari a quella di molti altri: “Non avevo niente, avevo solo chaos” , e forse dovremo chiederci se da questo “chaos” – che mi permetto di definire “collettivo” perché comune denominatore di molti – possa nascere qualcosa di nuovo o se, senza aiuto alcuno, esso rimanga tale e continui ad infestare parecchie vite. Il punto è il seguente: parliamo di “umanità” (con tutti i sinonimi del caso) e di cancellazione dell’egoismo, di aiuto del prossimo, soprattutto nell’ambito marxista, ma non ci accorgiamo che la disumanità a cui molti sono portati deriva da questo mondo e non da problemi vacui che i “big” della società calano sulle tavole delle persone per sviarle dai problemi della superficie e dell’underground. A mio avviso, e giungiamo alla fine, il picco più alto di critica sociale Kid Yugi l’ha avuto con due canzoni che ritengo collegate, ovverosia “Massafghanistan” e “Ilva (Fume Scure RMX)” ft. Fido Guido.

La prima canzone è una rivisitazione del cvlt “Venite a ballare in Puglia” di Caparezza, che Kid Yugi riprende nel ritornello:

Qua, sotto un beat rap e aggressivo, si parla di “Massafra” , città natale del nostro autore, e di quanto sia resa invivibile (o vivibile in un solo modo, quello della vita street) dalle droghe e dalla ndrangheta; sconsiglia vivamente, infatti, di “venire a ballare in Puglia” , quasi come se volesse tenere lontane le persone da quella terra infuocata, dove “quella tratta ora è il mio destino”. Un po’ l’appello del vecchio Caparezza. E poi abbiamo uno dei miei pezzi preferiti, “Ilva (Fume Scure RMX)”: il Nostro ha ripreso questa canzone da Fido Guido, un artista popolare pugliese dei primi anni duemila, conservando ritornello e base ed inserendovi un nuovo testo, che è un’arma molto potente, soprattutto perché parla dell’acciaieria ILVA di Taranto, un tema caro ai pugliesi e ai tarantini, e quindi anche a Kid Yugi, che spesso reposta articoli di giornale che parlano delle disgrazie che questo complesso industriale porta a chi vi abita nei dintorni. Ma non si parla solo dell’acciaieria, bensì di tutta l’intricata questione pugliese, che potrebbe essere estesa a molte altre province e regioni di questo paese, dove magari (e per fortuna) non c’è l’ILVA, ma vi sono in ogni caso malavita e disagio sociale.

“E anche in mezzo alle persone mi sento un po’ escluso/Perché ormai la legge legittima il sopruso/Il potere perpetra l’abuso, io mi sento stufo/Che se combatti un calcio in culo e poi vieni rinchiuso/I bambini hanno imparato che è normale/Perché gli hanno insegnato a non amare/Vincere e sognare, soffrire ed arrancare/ Perdere e combattere/Vivere o mangiare”.