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Di Moreno

La città di Barcellona è stata negli ultimi giorni teatro di una “caccia all’uomo” che mai ci saremmo aspettati da uno Stato, la Spagna, che ha la presunzione di autoproclamarsi “democratica”. Il capo d’accusa che pende sul pericoloso ricercato? Non si tratta di terrorismo né di omicidio, bensì di ribellione, sedizione e appropriazione indebita.
Carles Puigdemont, questo è il nome del “ribelle”, vive dal 2017 in esilio. La sua colpa? Aver rispettato la volontà del popolo catalano e le sue legittime aspirazioni all’autodeterminazione. Puigdemont è stato infatti, in qualità di ex presidente della Generalitat della Catalogna, il principale organizzatore del Referendum sull’Indipendenza catalana del 2017. Un referendum, inutile dirlo, considerato incostituzionale dallo Stato spagnolo. A dispetto di un’affluenza sufficientemente scarsa (giustificata chiaramente dalla repressione subita dallo stato centrale spagnolo), il quesito referendario ha ottenuto un’approvazione superiore al 90%, il che indica, senza ombra di dubbio, l’esistenza di una precisa volontà politica da parte del popolo della Catalogna.

Ma chi sono questi “catalani” e come mai reclamano la propria indipendenza dallo Stato spagnolo?
Semplice e banale “separatismo dei ricchi”, direbbe qualcuno, una sorta di riproposizione in salsa iberica del progetto padanista. Ma scavando più a fondo è possibile scoprire nella particolarità catalana la storia di un popolo da sempre “altro” rispetto alla Spagna, un popolo culturalmente, storicamente e linguisticamente autonomo, ma soprattutto un popolo fiero della propria identità e storia, e per questo da sempre in lotta contro il centralismo castigliano.

Panoramica della questione catalana
La Spagna, come altri grandi Stati dell’Europa occidentale, non è uno stato monoetnico, bensì uno Stato costruito sull’egemonia di uno dei popoli che costituiscono il mosaico spagnolo (in particolare: castigliani, catalani, baschi, galiziani), cioè quello castigliano. In maniera analoga il Regno Unito, i Paesi Bassi e la Francia si sono costruiti mediante l’egemonia rispettivamente degli inglesi, dei valloni e dei francesi dell’Île-de-France, in contrapposizione a irlandesi, gallesi, scozzesi, fiamminghi, bretoni, baschi, occitani e corsi.
Caso peculiare è invece quello italiano, complice il ritardo del processo unitario, nel quale un’identità unitaria d’origine intellettuale si è sovrapposta ad un mosaico estremamente eterogeneo di popoli e culture dotati di proprie lingue e tradizioni, senza tuttavia la necessità di una vera e propria etnia egemone. Ciò non toglie che, anche in Italia, come nel resto dell’Europa occidentale, lo Stato centrale si sia costituito come affermazione del centro sulla periferia, con la conseguente discriminazione tanto delle popolazioni del meridione quanto delle comunità non italofone del Nord.

La Catalogna non solo può vantare determinate peculiarità culturali e soprattutto linguistiche – il catalano appartiene infatti al ramo linguistico delle lingue galloromanze, tra le quali possiamo annoverare l’occitano, il francese, il francoprovenziale, le lingue galloitaliche, come il lombardo, e quelle retoromanze, come il friulano –, ma soprattutto una lunga storia d’indipendenza politica, nonché, cosa ancora più importante al fine del successo di un processo autonomista, una base di classe significativa associata al progetto indipendentista.

Breve storia dell’indipendentismo catalano
A fondamento del processo unitario iberico va senza dubbio collocato l’episodio della Reconquista, al quale seguì la progressiva egemonizzazione ad opera della corona castigliana. Nel 1469 avvenne l’unione dinastica tra Castiglia e Aragona, con il matrimonio tra Isabella I di Castiglia e Ferdinando II, principe ereditario di Aragona. Negli anni successivi fu soprattutto l’espansione imperiale, il rafforzamento dell’apparato fiscale e di quello militare, nonché l’azione politica di Carlo V, ad accelerare il processo di centralizzazione dello Stato spagnolo.
Un primo tentativo d’emancipazione catalana dal giogo spagnolo si ebbe nel 1640, anno nel quale la Catalogna fu colpita da un importante sollevamento di contadini e mietitori, il Corpus di Sang, che diede il via alla Guerra dei mietitori. Nel corso dell’anno successivo la Repubblica Catalana venne proclamata da Pau Claris, presidente della Generalitat de Catalunya, sotto la protezione francese.

Un’autonomia tuttavia effimera, che si concluse rapidamente con il riconoscimento di Luigi XIII come conte di Barcellona, e la sottomissione totale agli interessi della Francia, in quel momento in guerra con la Spagna, fino alla restaurazione del dominio spagnolo.

La Catalogna poté mantenere una certa autonomia all’interno dello stato spagnolo, almeno fino al 1714, anno nel quale le truppe franco-spagnole presero Barcellona nel corso della guerra di successione spagnola. Seguirono poi i Decretos de nueva planta, i quali bandirono la lingua catalana dalle scuole e gli uffici pubblici, sciolsero la Generalitat e imposero il castigliano come idioma ufficiale del regno. Ancora oggi l’11 di Settembre è una data particolarmente sentita in Catalogna, in ricordo proprio della caduta di Barcellona nelle mani borboniche.
Nel complesso l’egemonia castigliana non riuscì mai a sottomettere completamente l’identità nazionale catalana e lo Stato catalano, lungi dall’essere un progetto politico totalmente utopico, si concretizzò più volte nel corso della storia. Dalla sua parte la Catalogna aveva infatti una borghesia in ascesa, una manifattura e un’agricoltura avanzate, nonché un’aristocrazia gelosa dei propri privilegi. In tal senso la Catalogna si presentava come un centro alternativo alla Castiglia per la costituzione di uno Stato nazionale spagnolo, come fu anche il caso della Scozia per il Regno Unito e dell’Occitania per la Francia.

A galvanizzare nuovamente il patriottismo catalano ci pensò il Romanticismo e intorno agli anni 40′ dell’Ottocento fu il movimento Renaixença a farsi portavoce della rinascita culturale del catalanismo. Bisognerà attendere la seconda metà del secolo affinché la riscoperta dell’identità catalana assumesse anche una dimensione politica, inizialmente suddivisa tra un’ala tradizionalista, legata agli interessi dei proprietari terrieri, e un’ala progressista, legata alla borghesia cittadina. La classe operaia, sebbene in ascesa, non trovò ancora una vera e propria rappresentanza nell’ambito dell’indipendentismo.

La perdita di Cuba nel 1898 e il conseguente tramonto dell’Impero costituirono un importante motivo d’attrito tra la dirigenza catalana e quella castigliana, soprattutto in virtù dell’importanza delle esportazione nei territori d’oltremare per l’economia della Catalogna. Nel 1901 nacque la Lliga regionalista, il primo partito catalanista, ad opera dell’industriale Francesc Cambó. La Lega, espressione degli interessi della borghesia catalana, non si poneva come fine l’indipendenza della Catalogna, bensì l’avvio di un processo che permettesse alla classe dirigente catalana d’integrarsi e condizionare la politica dello Stato.

Nel complesso la Lega non riuscì ad intercettare i consensi della classe operaia, schierandosi anche apertamente a favore dello Stato centrale tanto in occasione dell’insurrezione di Barcellona del 1909 (la cosiddetta Settimana tragica) quanto nel corso dello sciopero del 1917, organizzato dalla CNT.
Un ruolo non indifferente nel processo di proletarizzazione del movimento lo ebbe invece Francesc Macià, il quale fondò il movimento Estat Català, finalizzato a raggruppare il catalanismo radicale su ispirazione del movimento repubblicano irlandese. Un nuovo duro colpo all’indipendentismo catalano arrivò tuttavia con il golpe e la successiva dittatura di Primo de Rivera, il quale, sebbene inizialmente appoggiato dalle élite catalane e dalla Lega, attaccò frontalmente l’autonomismo vietando l’esposizione della bandiera della Catalogna e l’utilizzo ufficiale della lingua catalana.
Nel frattempo Macià lavorò per mettersi in contatto con gruppi comunisti e anarchici catalani, cercando anche l’appoggio dell’Unione Sovietica, al fine di organizzare un’insurrezione contro la dittatura di Rivera. Il tentativo insurrezionale fu un fallimento, ma contribuì ad incrementare la popolarità del leader catalano, il quale poté ritornare in Catalogna in seguito alla caduta della dittatura, entrando a far parte di Esquerra Republicana. Nel 1931 proclamò la Repubblica Catalana, ma il progetto non riuscì a concretizzarsi, risultando in un compromesso con il governo spagnolo e la rinascita della Generalitat, antica istituzione d’autogoverno della Catalogna, della quale Francesc Macià fu il primo presidente.

La guerra civile rappresentò un altro momento eroico per il popolo catalano: il golpe militare di Franco non ebbe successo grazie alla resistenza delle milizie operaie e dei militari fedeli alla Repubblica, e il governo di Companys poté rendersi protagonista di avanzate riforme sociali. L’esperienza socialista catalana fu tuttavia stroncata precocemente dai conflitti interni che contrapponevano trotskisti, anarchici e stalinisti, e la vittoria dei franchisti gettò nuovamente nell’oblio il sentimento nazionale del popolo catalano. Lo stesso Companys, catturato dalla Gestapo, fu consegnato alle autorità franchiste e fucilato.

I catalani, nonostante tutto, continuarono a rappresentare una parte consistente, assieme ad altri popoli come quello basco, dell’opposizione alla dittatura franchista. A discapito di Esquerra Republicana crebbe l’importanza del PSUC, il Partito Socialista Unificato della Catalogna, d’ispirazione marxista-leninista, il quale dichiaratamente cercò una sintesi tra la lotta di classe e la difesa dell’identità nazionale catalana.

Fu tuttavia il milagro economico degli anni 70′ a stravolgere nuovamente le carte in tavola, spingendo la grande borghesia, tradizionalmente vicina a Franco, a riavvicinarsi agli ambienti autonomisti, appoggiandosi ad una visione liberale e cristiano-democatica. Nel complesso, a differenza di quanto accadde con l’ETA nei paesi baschi, la sinistra catalanista, anche quando apertamente marxista, non s’impegnò nella lotta armata e mantenne comunque una linea collaborativa nei confronti delle catalanismo borghese. Alla piattaforma dell’Assemblea de Catalunya, nata nel 1971, confluiranno diverse forze politiche, compresi i marxisti del Psan (Partit socialista d’alliberament nacional dels paisos catalans).

Nel 1980 si tennero le prime elezioni regionali, che videro la vittoria del centro-destra cristiano democratico del CiU, Convergenza e Unione. Il leader del CiU, Jordi Pujol, espressione di quella convergenza già citata tra la borghesia catalana e l’autonomismo, sarà presidente della Generalità ininterrottamente fino al 2003.
Un’ulteriore e decisiva svolta dell’indipendentismo catalano si ebbe a partire dalla crisi del 2008, la quale colpì in maniera decisiva la Catalogna con una decisiva crescita della disoccupazione e un importante impoverimento delle classi medie. Questo scossone contribuì a dare una nuova linfa all’indipendentismo catalano ed, in particolare, alla sinistra socialdemocratica indipendentista. Una rinascita guidata principalmente dalla classe operaia, dalla piccola e media borghesia e dal mondo del lavoro precario. Ed è proprio sulla scia di questa rinascita catalana che si giunse, nel 2017, al referendum per l’Indipendenza, e alla conseguente repressione che colpì tanto gli organizzatori quanto i manifestanti civili, una repressione che richiamò alla mente i tempi della dittatura.

Un bilancio
La forza del catalanismo politico è sempre stata, come anticipato, la presenza di una forte base sociale, precondizione necessaria al successo e l’affermazione di una rivendicazione indipendentista. Questa base sociale nel tempo ha subito sicuramente una profonda trasformazione: se la rivendicazione autonomistica fu dapprima appannaggio dell’aristocrazia e poi della borghesia produttiva, le redini del movimento vennero assunte successivamente dalla classe operaia, almeno fino al periodo cruciale del miracolo economico degli anni 70′. Fu in quella finestra storica che la borghesia catalana, insofferente al centralismo castigliano, decise di riavvicinarsi all’indipendentismo dopo anni di sottomissione al nazionalismo reazionario franchista.

Questo stravolgimento contribuì in maniera determinante tanto al carattere interclassista del movimento
quanto al suo stesso successo, vista l’impossibilità per la classe operaia catalana degli anni 70′ di porsi alla guida di un movimento politico senza il supporto o quantomeno l’aperta indifferenza dell’élite della regione. Il 2008 ha contribuito a modificare di nuovo i rapporti di forza, restituendo alla classe operaia e alle masse popolari un ruolo di primo piano nel processo catalanista, senza tuttavia che la rivendicazione potesse assumere un carattere dichiaratamente rivoluzionario (e per questo i tempi sono decisamente immaturi, checché ne dicano coloro i quali vedono in ogni rivendicazione salariale l’alba di un processo rivoluzionario).

Il popolo catalano sarà mai libero di autodeterminarsi? È un quesito al quale nessuna analisi economica può realmente dare una risposta certa. Ciò che è certo è che il popolo catalano è pronto a scendere in piazza per la propria libertà, e non possiamo che concedere ai catalani i nostri migliori auguri affinché la loro lotta rappresenti un piccolo passo in avanti sulla via della liberazione dei popoli dalle catene dell’imperialismo e del capitalismo