Di Andrea Falco Profili

Introduzione

Scrivo queste parole a seguito della conclusione del Campionato Europeo, è a malincuore che mi ritrovo a comporre un articolo del genere, la nostra nazionale quest’anno si è dimostrata totalmente inefficace in un campionato nel quale entrati come teste di serie, ne siamo usciti come totalmente inadeguati. L’Italia di Spalletti si è dimostrata incapace di eguagliare o anche solo di omaggiare il risultato di Mancini, cosa possiamo cogliere da ciò?

Calcio e Politica sono un miscuglio letale, croce di ogni tavolata che si pronosticava serena e spensierata; due dimensioni che all’occhio non allenato sembrano sconnesse e possono confluire solo in conversazioni di basso tenore culturale. Eppure, il gioco del Calcio è una finestra spalancata sulla nazione profonda da cui sarebbe una bestemmia non affacciarsi. Di recente la volontà di politicizzare, o potremmo dire più volgarmente “partitizzare” il Calcio ha preso il sopravvento. Basti pensare a come con il trionfo nell’ultimo campionato europeo, alcuni abbiano avuto anche la faccia tosta di parlare di “effetto Draghi” per giustificare l’epopea azzurra. Naturalmente, con la sconfitta più recente, invece, i tentativi di politicizzazione si abbassano a livelli ulteriormente infimi: dalle testate di Destra che invitano a procreare per generare nuovi talenti (tesi anche condivisibile, ma per citare una delle frasi preferite dai liberisti “con quali coperture?”), alla più comica Sinistra che tenta di riproporre lo stantio dibattito sullo Ius Soli per arricchire la nostra nazionale di talenti non attualmente muniti di cittadinanza; curioso come sia passato in sordina il fatto che nell’anno precedente, la Francia, attolita perennemente a modello dagli spasimanti del diritto per nascita, abbia iniziato ad abiurare ciò con il più recente progetto di Legge sull’Immigrazione approvato dal parlamento.

Ma noi, che ci nutriamo sì di politica, ma intesa in un senso più alto del banale chiacchiericcio, non abbiamo interesse a discutere di tesi simili, ragioniamo invece di cosa possa insegnarci di politico questo rito sacrale nazionale che è il gioco del Calcio.

Capire il Calcio, capire le Nazioni

Per alcuni potrà sembrare una tesi molto fantasiosa, per altri potrebbe risultare scontata, ma sarebbe possibile scorgere elementi della cultura e dello spirito nazionale all’interno dello stile di gioco adottato. Uno dei principali sostenitori di tale teoria, nonché il più celebre, fu Henry Kissinger; personaggio al quale si può recriminare tutto fuorché la competenza, giacché se l’Impero Statunitense ad oggi respira ancora, certamente vi è da riconoscere merito proprio al sopracitato diplomatico, tanto nefando nell’operato quanto lucido nelle analisi.

Kissinger, benché cittadino americano, predilesse sempre il gioco del Calcio, soffrendo per come questo nella cultura della propria nazione godesse di rilevanza prettamente marginale se comparato ad altri sport.

Abituato alla vita diplomatica e ad avere una visione strategica in tutto, Kissinger osservava le partite di calcio con un difetto professionale per cui, non riusciva a non scorgere qualcosa di più profondo nelle tattiche adoperate dalle squadre nazionali sul campo. Nel 1986 pubblicò sul Washington Post un curioso articolo intitolato “Soccer Imitates Life”, per esporre la propria teoria a riguardo. Kissinger dimostrava come la storia e lo spirito nazionale influenzassero lo stile di gioco portando numerosi esempi: riteneva che la Germania Ovest, società da sempre considerata stoica, irregimentata e marziale nella propria vita collettiva dispiegasse sul campo un gioco profondamente disciplinato, fatto da formazioni solide e ferrea coordinazione diretta a conseguire il risultato al di fuori dello spettacolo. Una tattica in grado di guadagnare rapidi conseguimenti ma incapace di sottostare ad un pressing prolungato, non a caso Kissinger argomentava i fallimenti in campo della Germania Ovest raffrontandoli con il piano Schlieffen adoperato nella Prima Guerra Mondiale, ritrovando gli stessi limiti tattici tanto sul campo da gioco quanto su quello di battaglia.

Per portare una considerazione personale, non riesco ad astenermi dal pensare alla tesi di Oswald Spengler nel suo celebre saggio “Prussianesimo e Socialismo”, nel celeberrimo testo viene argomentato che la rigida società germanica non ammette il carisma al comando, vizio invece dei popoli latini. Spengler sosteneva difatti che figure come Napoleone Bonaparte, assurto ad imperatore nel mondo latino, se fosse nato tedesco non avrebbe fatto carriera oltre il ruolo di ufficiale. Non riesco neanche a ignorare a fronte di ciò come lo stile prussiano del calcio tedesco, benché sia riconosciuto per i suoi traguardi, difficilmente abbia donato al mondo giocatori in grado di distinguersi anche individualmente, caratteristica invece tipica delle nazioni latine e latinoamericane.

Del Brasile viene restituito invece un ritratto opposto, una nazione offensiva, caotica e festosa; Kissinger paragona lo stile di gioco dei brasiliani ad una samba danzata durante un carnevale di strada, qui lo spettacolo prende il sopravvento sul risultato: grandi azioni offensive, dribbling costanti e partita disputata principalmente nella metà campo avversaria. Il difetto del gioco brasiliano è invece il dimenticare di dover concretizzare un risultato, spesso intossicati dalla samba di campo, i giocatori non riescono a segnare per la necessità di complicare azioni strutturalmente semplici. Altresì iconico come il Brasile abbia donato al mondo ben pochi portieri degni di nota, ruolo forse troppo stazionario per lo spirito di Rio.

Il gioco Inglese invece, avrebbe sofferto di eccessivo conservatorismo, non avendo mai abbandonato le sue tattiche di sfondamento e il suo stile offensivo dai tempi prebellici, questa nazionale, rea di aver portato alla ribalta il calcio Europeo a discapito di quello Sudamericano, ha progressivamente visto il suo ruolo divenire sempre più marginale, incapace di far fronte ad un gioco che, nelle regole, è divenuto sempre più difensivo. Non è un caso che l’Inghilterra, nazione riconosciuta per il grande calcio, sia sistematicamente incapace di vincere un campionato europeo: una discrasia notevole soprattutto se raffrontata col fatto che, slegandosi dalle logiche nazionali, il calcio inglese sia ancora oggi un’istituzione iconica in grado di offrire autentico spettacolo.

Dal “Calcio Totale” Olandese al “Tiki-Taka” Spagnolo, particolarmente meritevole quest’anno, secondo Kissinger in ogni grande invenzione sul campo si può respirare un pezzo di storia, di cultura e politica dei popoli, e naturalmente l’Italia non è esente da questo paradigma.

Disperato stile Italiano

Che analisi viene fatta sul calcio nostrano invece? Kissinger ricollega lo stile di gioco azzurro alla grande storia dello stivale: gli Italiani, che nel loro antico passato hanno avuto il merito di essere scampati a grandi crisi ed essere riusciti a cavarsela contro pronostici insormontabili, in una storia nazionale che dalla caduta di Roma fino all’unificazione può essere letta come una storia di sopravvivenza e tribolazioni, portano questo ampio bagaglio storico e culturale sul campo. L’Italia gioca esasperando i propri avversari, conserva le energie e le spende con scaltrezza, fa qualcosa di simile a ciò che Sun Tzu descriveva come il “saper condurre la danza” in guerra. L’Italia come un ariete persevera e costringe l’avversario a rivedere le proprie tattiche e rinunciare ai propri punti di forza, ad un occhio esterno lo scanzonato stile degli Italiani sembra semplice disperazione; ma al volgere degli ultimi minuti la Lupa Capitolina spalanca le fauci e porta a casa il risultato. Un esempio dello stile azzurro può essere osservato nella marcatura di Gentile a Diego Armando Maradona in Italia – Argentina 1982, lo stile di gioco aggressivo argentino e l’individualismo eroico di Maradona vengono annullati, l’Argentina non potendo giocare alle proprie regole si rimpicciolisce mentre l’Italia primeggia. Non è forse un caso allora che i trionfi italiani più iconici nonché recenti, che abbiano lasciato un solco nella memoria popolare siano contraddistinti non da un dominio del campo quanto da vittorie risicate: il gol di Grosso, la parata di Donnarumma, l’Italia vince così; in un tripudio di caos e sopravvivenza, la nostra nazionale, tanto scanzonata quanto il suo popolo, deve prima disperarsi per poi trovare la forza per colpire in maniera decisiva.

Conclusioni

Ritenendo che vi sia del vero nell’analisi di Kissinger, vorrei arricchirla con alcune considerazioni personali. Naturalmente, bisogna avere contezza di come il Calcio sia cambiato dagli anni in cui questa teoria venne messa su carta, il Calcio è un gioco fondamentalmente diverso, sia per il mercato sempre più ingombrante che ne fagocita l’anima sia perché è mutato il modo di commentarlo e analizzarlo, poiché in fondo è mutato il Calcio nella sua interezza.

Oggi non si commentano più tanto le squadre quanto le statistiche individuali, cultura importata gratuitamente da altri sport e che trasuda un che di marcatamente americano. Oggi, rispetto al passato, si gioca in favore degli attaccanti, mosse come il retropassaggio di piede al portiere non sono più concesse; come, tra l’altro, è molto più complesso praticare qualsiasi tipo di gioco ostruzionistico. Discorsi che oggi sono considerati normali come il voler comparare a tutti i costi Messi e Ronaldo sulla prestazione individuale, in passato sarebbero risultati sciocchi e immeritevoli di avere spazio nel giornalismo sportivo.

È mutata anche la situazione politica internazionale, e questo certamente può avere un ruolo. Kissinger, che naturalmente era un feroce anticomunista, individuava nell’ossessione per la pianificazione e l’incapacità di concepire azioni creative e individuali il grande limite del calcio esteuropeo, motivo per cui a suo dire vi è sempre stato un notevole divario di qualità tra le squadre di nazioni comuniste, e le squadre del resto del mondo. A prescindere dalla veridicità di queste tesi, con cui personalmente dissento facendo notare invece come il calcio sovietico sapesse coniugare nella stessa squadra tanto la disciplina slava quanto l’estro caotico caucasico (il cosiddetto stile meridionale), ritengo sia innegabile che lo stile di gioco nello sport, tradisca qualcosa di più profondo e insito nel tessuto nazionale.

Perché l’Italia allora ha perso? Perché non siamo più la stessa squadra di Mancini?

Il parere dell’autore è che, benché Luciano Spalletti ne capisca di Calcio, forse abbia avuto difficoltà a comprendere gli Italiani. L’Italia del 2021 (ufficialmente Euro 2020), era una nazione scanzonata, in grado di prendersi poco sul serio e che ha conosciuto i propri momenti di goliardia dentro e fuori il campo. Forse il “metodo Spalletti” caratterizzato da una volontà eccessiva di irreggimentare la nazionale, costringendo addirittura i giocatori ad un ritiro spartano “senza cellulari né Playstation”, è servito solo a cercare di dirigere una corrente che, scorreva in ben altra direzione e che nessun uomo può costringere a mutare corso. In questo c’è da dire che, amaramente, il calcio nostrano riproduce esattamente la nostra forma politica: la rottura tra tecnici e giocatori riflette poeticamente la rottura tra istituzioni eterodirette da interessi sovranazionali a governare il paese con politiche economiche “teutoniche”, e il popolo che ritrovandosi incompreso e inascoltato, non riesce a capovolgere la situazione e fermare la direzione impostagli.

Forse nel Calcio, così come in Politica, quel momento caldo in cui la disperazione massima porterà gli Italiani a compiere i loro tipici miracoli arriverà presto, non ci resta che attendere