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Di Moreno

La rivoluzione è un processo inevitabile che sorge spontaneamente dalle contraddizioni oggettive che permeano un determinato sistema economico-sociale, oppure è il frutto della volontà cosciente dei soggetti rivoluzionari? La domanda non è banale, in quanto la dicotomia determinismo/volontarismo ha sempre permeato, in modo più o meno importante, il dibattito filosofico marxista, e non può essere certamente considerata una questione di poco conto, soprattutto alla luce del “fallimento” storico del Socialismo reale. Per decenni, infatti, la costruzione teorica del sistema ideologico dominante sovietico ha “ridotto” il materialismo storico ad una teleologia fondata sull’evoluzione progressiva e inevitabile dal comunismo primitivo al comunismo futuro, con la “negazione” necessaria schiavistica-feudale-capitalistica. Questa fu generalmente l’impostazione non solo del marxismo sovietico, ma generalmente del marxismo come sistema coerentizzato da Engels e Kautskij, e divenuto conseguentemente dominante nella Seconda Internazionale (con le seguenti conseguenze nefaste del menscevismo e teorie affini); eppure già Marx poté mettere in chiaro questo grande fraintendimento, e lo fece, già anziano e malato, in una lettera breve ma estremamente importante, indirizzata a Vera Zasulič, che qui riportiamo integralmente: «Cara cittadina, Una malattia nervosa che da dieci anni periodicamente mi colpisce mi ha impedito di rispondere prima alla vostra del 18 febbraio. Mi spiace di non potervi dare un esposto succinto, e destinato alla pubblicazione, sul quesito che mi avete fatto l’onore di propormi. Già da mesi ho promesso un lavoro sullo stesso tema al Comitato di Pietroburgo. Spero tuttavia che bastino alcune righe a togliervi ogni dubbio circa il malinteso intorno alla mia sedicente teoria. Analizzando la genesi della produzione capitalistica io dico: «Al fondo del sistema capitalistico v’è dunque la separazione radicale del produttore dai mezzi di produzione … La base di tutta questa evoluzione è l’espropriazione dei coltivatori agricoli, dei contadini. Essa non si è finora compiuta in modo radicale che in Inghilterra … Ma tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale percorrono lo stesso movimento» (Il Capitale, edizione francese, p. 315). La « fatalità storica » di questo movimento è dunque espressamente limitata ai paesi dell’Europa occidentale. Il perché di questa limitazione è spiegato nel capitolo XXXII: «La proprietà privata fondata sul lavoro personale … sarà sostituita dalla proprietà privata capitalistica fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui, sul salariato» (op.citata, p. 340).

In questo movimento occidentale, si tratta quindi della trasformazione di una forma di proprietà privata in un’altra forma di proprietà privata. Per i contadini russi, si tratterebbe invece di trasformare in proprietà privata la loro proprietà comune.

Perciò, l’analisi data nel Capitale non fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale; ma lo studio apposito che ne ho fatto, e di cui ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia. Tuttavia, perché essa possa funzionare come tale, occorrerebbe prima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti, poi assicurarle condizioni normali di sviluppo organico. Ho l’onore, cara cittadina, di essere il vostro devotissimo».

Le conseguenze di questa lettera sono alquanto interessanti, poiché implicitamente mettono in crisi una certa visione meccanicistica, la quale vorrebbe il comunismo come conclusione necessaria dell’evoluzione capitalistica, e l’economia industriale moderna come sua base imprescindibile. La storia ha ampiamente dimostrato la possibilità di costruire il socialismo anche in paesi arretrati privi di un’economia capitalistica sviluppata, eppure non tutti ne hanno tratto le conclusioni necessarie: se da una parte è certamente vero che l’imperialismo ha generato le condizioni affinché la rivoluzione possa partire dall’«anello più debole della catena», è altrettanto vero che il fattore umano sia un determinante altrettanto importante; se in regime borghese si può infatti supporre che le contraddizioni del capitalismo siano destinate a sfociare in una crisi sistemica dalla quale è possibile uscire solo mediante il passaggio al socialismo (e questa è una conclusione che personalmente ritengo scorretta, sebbene, nella sostanza, sensata), lo stesso non è possibile affermare nelle condizioni arretrate e semi-feudali delle nazioni sottosviluppate, dove sono aperte due strade alternative: sviluppo in senso capitalistico o rivoluzione socialista, e i fattori determinanti in tal caso sono, per forza di cose, la volontà delle masse popolari, lo sviluppo della loro coscienza di classe e delle organizzazioni proletarie (Partito, sindacati, consigli ecc.), la presenza di una leadership rivoluzionaria.

Mi si permetta d’introdurre il tema con un breve excursus scientifico sul tema del libero arbitrio: in termini biologici, quello del libero arbitrio è un problema ancora aperto, e senza una vera e propria soluzione univoca. Un testo particolarmente interessante a tal proposito è Neurobiologia della volontà di Arnaldo Benini: la tesi centrale del libro è che l’esistenza del libero arbitrio sarebbe incompatibile con le moderne scoperte nell’ambito delle neuroscienze, in particolar modo per quel che concerne il potenziale di prontezza, un segnale elettrico che compare millisecondi prima dello svolgimento e della presa di coscienza dell’azione stessa. La credenza nel libero arbitrio sarebbe dunque un’illusione messa in atto dal nostro cervello con un chiaro vantaggio evolutivo. Siamo tuttavia ben lontani da verità definitive e lo stesso autore ha voluto lasciare aperto un “piccolo spazio” alla nostra libertà, in quanto le nostre scelte sarebbe influenzate bene o male dalle nostre esperienze anteriori: insomma, una magra consolazione. Qualcun altro ha voluto introdurre un ulteriore distinguo, affermando che sì, nel campo delle azioni abitudinarie il libero arbitrio sarebbe un’illusione, ma non nel campo delle scelte più importanti della nostra vita, nelle quali il libero arbitrio potrebbe agire indisturbato.

A dispetto di ciò, il problema del determinismo in campo marxista trascende l’aspetto puramente biologico, e se scoprire che il mio cervello potrebbe aver deciso di scrivere questo articolo ben prima che ne prendessi coscienza ha le potenzialità per diventare un ottimo tema per la prossima discussione al bar, difficilmente questa presa di coscienza potrebbe avere conseguenze disastrose (domani non uscirò di casa investendo i pedoni né mi ritirerò in un monastero a meditare e lasciarmi trasportare dal Tao), viceversa, il determinismo “marxista” ha conseguenze potenzialmente catastrofiche, poiché nega l’importanza dell’organizzazione, della costruzione del Partito e delle organizzazioni rivoluzionarie, della propaganda, della stessa possibilità di realizzare la rivoluzione. Il determinismo marxista non ha una natura biologica, quanto più “”storicistico-sociologica”, e si fonda sull’innegabile assunto che l’essere sociale dell’uomo determini la sua coscienza, una verità eterna del materialismo storico che tuttavia può dare adito ai più vari fraintendimenti.

Nemmeno l’inevitabilità di un cambiamento sociale in sé nega la possibilità di un’azione cosciente: è infatti perfettamente lecito supporre che la rivoluzione giunga, in maniera “inevitabile”, poiché le condizioni di vita della popolazione sotto il capitalismo non possono che peggiorare, fino al momento della rottura, rottura che avviene precisamente perché le masse non possono più tollerare un determinato stato di cose, e coscientemente innescano un processo rivoluzionario. Come correttamente individuato da Plechanov, inoltre, «persino il fatalismo non solo non impedisce sempre l’energica attività pratica, ma al contrario, in certe epoche, è la base psicologica necessaria di tale azione».

Dalla parte opposta dello spettro è possibile situare quei marxisti per i quali la venuta del comunismo non sarebbe assolutamente prevedibile, e tra i sostenitori più illustri di questa teoria vi è di sicuro Althusser: come la deviazione spontanea degli atomi di Epicuro, la rivoluzione non è un qualcosa di certo e determinato, né tantomeno il risultato di una specifica contraddizione. La Rivoluzione è bensì possibile solo in una determinata congiuntura, nella quale possono agire un gran numero di contraddizioni diverse (surdeterminazione).

Il sistema scientifico di Marx, dopo la “rottura epistemologica” che separa i Manoscritti economico-filosofici dalle opere del Marx maturo, si sarebbe emancipato dall’infausta eredità teleologica del sistema hegeliano («la dialettica hegeliana infatti e, anch’essa, teleologica nelle sue strutture, poiché la struttura chiave della dialettica hegeliana è la negazione della negazione, che è la teleologia stessa, identica alla dialettica»). Eppure il sistema hegeliano è difficilmente imputabile di “teleologismo” o “determinismo”, proprio perché la Nottola di Minerva “si alza sul far del crepuscolo” e mai Hegel ha inserito nel proprio sistema una concettualizzazione del futuro, accanto alla riflessione filosofica sul “proprio tempo appreso nel pensiero”. Il fine è per sua natura finito, e l’Assoluto, in quanto infinito, non può essere ridotto al finito: Assoluto è soltanto il divenire, e credere che la la certezza della rivoluzione comunista sia frutto del sistema hegeliano rappresenta senz’altro una forzatura. Ma il fine di Althusser non è solo quello di liberare il marxismo dal suo determinismo, quanto quello di opporsi all’interpretazione “umanistica” del pensiero di Marx, in favore di una storia “senza soggetto”, nella quale, mi si permetta di dirlo, l’azione cosciente dell’uomo vale quanto la vita di sua moglie. Nel fare ciò dunque, Althusser non solo si oppone all’economicismo deterministico con una serie d’importanti riflessioni sul ruolo degli Apparati Ideologici di Stato e sulla struttura articolata a dominante, ma cerca altresì di opporsi al determinismo umanistico, che vede nella storia un “processo” necessario di progressiva liberazione umana, che ha il suo fine predeterminato nel comunismo, come società della libera individualità e nella quale si potrà realizzare la tanto agognata libertà ed emancipazione dell’Uomo. Questa visione umanistica sarebbe dunque il frutto dell’eredità di Hegel: per quest’ultimo, tuttavia, l’identificazione di reale e razionale non è, come nell’interpretazione superficiale di numerosi commentatori, una forma di storicismo finalizzata alla giustificazione del “vincitore”, proprio in quanto il reale (Wirklich) e ciò che è adeguato al proprio concetto (Begriff), il reale dev’essere dunque portato al razionale, altrimenti è destinato a restare “fattuale”, ma non certo “reale”. In tal senso s’inserisce il problema della formulazione marxiana dell’ente naturale generico (Gattungswesen), che si distingue dall’ente specifico proprio in quanto la genericità permette che la natura umana si esplichi storicamente in forme molto variabili di associazione, e non in una forma stabile e specifica già data.

L’esistenza in Marx di una “natura umana” (se ne trovano tracce tanto nei Grundrisse, dove l’uomo viene specificamente definito ζῶον πολιτιχόν (zóon politichon), quanto in opere più mature come Il Capitale, dove si può leggere: «Ciò deriva dal fatto che l’uomo e per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale») è certamente un tema discusso e ovviamente non universalmente accettato all’interno del dibattito marxista, soprattutto alla luce della possibile declinazione “conservatrice” del problema: se si suppone che la natura umana sia un qualcosa di dato e non trasformabile, allora si nega in partenza la possibilità di uno stravolgimento rivoluzionario delle coscienze, a cui sicuramente si confà con più facilità la teoria del foglio bianco. Ma la specificità dell’ente naturale generico, proprio in quanto generico, è la possibilità di esprimersi storicamente nelle forme sociali più differenziate, nonché la possibilità o meno della conformazione al genere (Gattungsmassigkeit), tema che ha interessato soprattutto Lukacs nella sua Ontologia dell’essere sociale. Il problema è dunque considerare questa conformità al genere come storicamente necessaria e non, in termini aristotelici, come potenzialità.

Se l’uomo è un animale naturalmente politico (o sociale), e se si suppone (come confermato dall’antropologia e dallo studio delle società primitive, nonché teorizzato da numerosi intellettuali di spessore come Karl Polanyi, a dispetto delle chiacchiere liberali sulla presunta natura umana “capitalistica”; una strana natura quella che ha caratterizzato appena due secoli su centinaia di migliaia d’esistenza della nostra specie!) che l’aggregazione umana, per così dire, primitiva o naturale, fosse di tipo collettivistico (il cosiddetto “comunismo primitivo”), ciò non conduce all’inevitabile conclusione che la conformità al genere, e dunque l’affermazione storica di una società in cui il carattere sociale connaturato alla natura dell’uomo stesso possa esplicarsi liberamente, sia un qualcosa di storicamente necessario e indipendente dalla volontà cosciente dei soggetti rivoluzionari.

La soluzione al problema non può trovarsi certo in una negazione completa della determinazione sociale della coscienza a favore di una libertà umana pienamente svincolata da ogni limitazione d’ordine sociale o storico, una libertà che difficilmente può conciliarsi con un’analisi della Storia fondata sui fatti e non sul puro arbitrio, bensì a partire una concezione che contempli la possibilità di una libera volontà umana capace di esplicarsi all’interno di determinate finestre storiche, aperte dalle crisi del sistema capitalistico e borghese, e nelle quali l’umanità è capace di “conformarsi al genere”, ponendo in atto la propria natura in potenza di essere sociale, politico e comunitario.