Di Risorse Rosse
Introduzione
Il XXI secolo ha la possibilità di essere un’età di grande sgretolamento o di grande unificazione. Al momento attuale entrambi i fenomeni prendono corso: isolamento e massificazione digitale, isolamento e massificazione economica, isolamento da e massificazione in organismi sovranazionali. In questo articolo, gentilmente ospitato sul sito di Socialismo Italico, mi concentrerò sulla perenne base di qualsiasi fenomeno sociale ed economico: il territorio politicamente inteso dai suoi abitanti e dalle istituzioni.
Mi è stato detto: “Se accettassimo la vittoria russa in Ucraina il paradigma dell’immutabilità dei confini post-1945 si frantumerebbe”. Questo è vero, anche se le nazioni europee, secondo la vulgata liberale, dovrebbero essere abbastanza “avanzate” per poter risolvere nuove contese territoriali con civiltà e galanteria. Io rispondo che anche una sconfitta della Russia sarebbe altrettanto nociva per la stabilità europea e americana. La produzione e il trasporto globale di grano e gas sarebbero impossibili e i secessionismi caucasici e siberiani troverebbero terreno fertile. La balcanizzazione immediatamente uscirebbe dagli argomenti tabù dell’opinione pubblica europea e americana. I socialisti dovrebbero augurarsi la massima frammentazione globale, portando all’estremo il concetto leninista di “autodeterminazione delle nazioni”, in modo da indebolire l’imperialismo occidentale?
Sognare un mondo composto da migliaia di “piccole patrie” – fino ad arrivare non ironicamente a stati limitati alla proprietà immobiliare – è quanto di più lontano dalle nostre aspirazioni. Io propongo non solo il ritorno al concetto di nazione unita e indivisibile, indistinguibile dallo Stato, ma anche la progressiva propagazione del concetto di “super nazione”. Allo stesso tempo in questo articolo esporrò una mia idea di identità regionale e tutela delle lingue e costumi locali.
Definire la “nazione” e la “super nazione”
Come qualsiasi concetto, quello di nazione va definito in modo chiaro, senza vaghezze ma senza arrivare a una elaborazione così minuziosa da risultare altrettanto aliena dalla realtà. Josef Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin ebbe già da dire molto in merito ma qui non farò copia e incolla de Il Marxismo e la questione nazionale. Cercherò di esprimere parole mie. La nazione è un’entità demo-territoriale con: confini geografici ovvi come montagne, grandi fiumi, mari e deserti; coesione linguistica, in cui le varianti locali della lingua non impediscano la mutua intelligibilità; coesione genetica grossomodo mantenuta nel corso dei millenni (con un aplogruppo evidentemente maggioritario rispetto agli altri) e fondamenta storico-ideologiche solide. Nazioni sono la Francia, l’Italia, l’Ungheria, la parte slavofona della Russia e la parte Han della Cina. Uno Stato e una nazione possono non sempre coincidere, infatti prima si parlava di “stati-nazione” opposti a “stati pluri-nazionali”. Nel XXI secolo inoltrato in Occidente lo Stato ormai è concepito dalla popolazione come l’entità che semplicemente fa rispettare la legge, si rapporta con l’impresa, tassa i cittadini e governa un territorio con confini riconosciuti internazionalmente.
Una “super-nazione” è un’entità demo-territoriale le cui ipotetiche componenti parlano lingue con un progenitore comune, hanno pool genetici vicini tra di loro e una storia di alleanze e scambi culturali e linguistici profonda. In Europa “super nazioni” facilmente riconoscibili sono l’insieme dei paesi neolatini mediterranei, la comunità germanica, quella panslava etc. Una “super nazione” in mia opinione non è solo legata linguisticamente ma lo è anche da propositi di rifondazione, a seguito della caduta di certi imperi nella storia. L’URSS è stata una super-nazione, così come oggi la Repubblica Popolare Cinese, l’Unione statale tra Russia e Bielorussia, l’India, il Brasile e per certi versi gli USA.
Le elezioni sono arrivate e passate ma per l’Unione Europea rimane il problema di non sapere come giustificare la propria esistenza se non con l’apertura delle frontiere interne alla concorrenza al ribasso, al dumping salariale e alla partita di ping-pong riguardo gli immigrati extra comunitari. Sicuramente preme molto la crescente concorrenza cinese nello spingere certe sezioni della politica europea a chiedere un unico Stato federato, alla Stati Uniti d’America ma più “a sinistra”. Si cerca di proporre come collanti identitari lo Stato di diritto, le libertà civili, l’Umanesimo, l’Illuminismo, il Manifesto di Ventotene, le costituzioni democratiche, l’antitotalitarismo. Tutte cose volendo condivisibili, se non fosse che le costituzioni socialiste fanno altrettanto parte della storia contemporanea del diritto, la religione cristiana e ancor prima quella greco-romana sono la base dell’Europa e concetti come diritto e libertà sono così vaghi che vengono utilizzati come mazze dal nuovo eurocentrismo liquido e cosmopolita: “O siete aperti come noi o sparite”. Quello della lingua comune è il terreno più scivoloso di tutti quando si chiede agli europeisti cosa darebbe senso a degli Stati Uniti d’Europa: l’inglese? Il francese? Il tedesco? Latino e greco, in un periodo in cui le materie umanistiche sono sempre più sotto attacco? L’esperanto, anche se il suo autore la ideò come lingua delle comunicazioni globali. L’Unione Europea funzionerebbe meglio a compartimenti semi aperti: il Gruppo Visegrád, il Consiglio Nordico e del Mar Baltico sono seri passi verso questo concetto, forums come EuroMed e l’Iniziativa Adriatico-Ionica sono progetti poco considerati dagli stessi paesi membri, ancora allo stadio del “proporre” invece che dell’attuare.
Come è nata l’Ucraina e come è fallita
Il nazionalismo ucraino nacque tra circoli intellettuali della Galizia austriaca di fine Ottocento, l’unica parte della medievale Rus kievana non rientrata nell’Impero russo dopo la lunga presenza polacco-lituana nella regione. L’idea di una entità ucraina diversa dal resto della Russia trovò diversi oppositori nella stessa Galizia, battendo il ferro sul retaggio dei cosacchi del Don e Dnepr, i quali aiutarono i russi a scacciare i polacchi dalle loro terre tra il 1655 e il 1794 (MFA Russia, 11/12/23).
Durante la Prima guerra mondiale, componenti separatiste dell’amministrazione dell’Impero russo riuscirono a proclamare l’indipendenza di uno stato ucraino, immediatamente occupato dalle truppe dell’Impero germanico. Fin dalla Rivoluzione d’ottobre nel sud della piana del Dnieper si formarono due repubbliche sovietiche russofone, intorno a Donetsk e a Odessa, conquistate dai tedeschi in seguito al Trattato di Brest-Litovsk. Il trattato manteneva la Crimea come territorio russo.
Con la sconfitta degli Imperi centrali, delle truppe zariste e degli invasori occidentali, fu possibile stabilire la Repubblica Socialista Sovietica ucraina, con i territori costieri e intorno al Don confermati a essa.
Dopo quattrocento anni di separazione, effettivamente differenze tra i popoli slavo-ortodossi si erano formate, ma la costa settentrionale del Mar Nero era abitata anche da russi, greci, turchi, rumeni e italiani, così come zone abitate dai cosacchi furono assegnate alla RSSFR (Mappa etnografica della Russia Europea, San Pietroburgo, 1875, Aleksander Fyodorovich Rittikh).
I confini dell’Ucraina fino al 2022 sono il frutto di vari ragionamenti dei bolscevichi ai tempi: ammendare all’imperialismo russo del passato, fornire uno sbocco sul mare all’Ucraina e creare un’industria pesante locale. Le vicende della carestia degli anni Trenta sono già state trattate da SocIt.
Per colpa di una intensa e potente rete di espatriati anticomunisti, fu impossibile fermare la nascita dell’ultranazionalismo ucraino simpatizzante del nazismo, il quale prese il potere nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale, con a capo Stephan Bandera. Al contrario, milioni di ucraini combatterono nell’Armata Rossa per sconfiggere il piano genocidario nazista.
La RSS ucraina fu premiata, dopo la Seconda guerra mondiale, con quei territori catturati e rimasti ai polacchi dal 1921 al 1939, quindi anche la Galizia, da dove era partita l’idea nazionalista antirussa. Nel 1957 la CIA stilò un piano, oggi desecretato, per far separare le zone occidentali della RSS ucraina dall’Unione Sovietica (Resistance factors and special forces areas Ukraine, 01/08/1957, cia.gov).
Nel 1949 Bandera fu assassinato dai servizi segreti sovietici e nel 1956, in seguito a una decisione di Nikita Krusciov, la Crimea fu trasferita alla RSS ucraina. Progressivamente, la lingua ucraina divenne quella maggioritaria sulla costa settentrionale del Mar Nero, a parte la regione del Donbass e la penisola di Crimea, con i suoi tartari tristemente deportati per ragioni di emergenza militare durante la Seconda guerra mondiale, un torto mai veramente riparato per via della Guerra Fredda. Progressivamente sempre più persone nella RSS ucraina cominciarono a usare la lingua ucraina, come prima o co-lingua, così come nella RSSFR le zone abitate da ucrainofoni si omogeneizzarono sempre di più ai parlanti del russo.
I rapporti post-sovietici tra Russia e Ucraina rimasero “cordiali” finché con il primo Maidan del 2004 non apparve ovvia una divisione all’interno della società ucraina tra chi ancora si percepiva come parte di un mondo panrusso e chi invece ritenesse che il paese dovesse cambiare mentalità e divenire parte del mondo occidentale. Il movimento nazista partecipante al secondo Maidan del 2014, che contribuì allo scoppio della guerra civile con il Donbass e alla persecuzione dei russofoni in Ucraina esacerbò l’ideologia antirussa, diffondendo l’idea della non europeità dei moderni russi, accusati di essere eredi dei mongoli che distrussero la Rus kievana.
Il minimo senso di resistenza ucraino fu dirottato nella vittoria di Volodymir Zelensky nelle elezioni del 2021, il quale promise la distensione ma alla fine fu costretto dal governo ombra nazista e dagli americani a riprendere il conflitto contro il Donbass (L’Antidiplomatico, 18/02/22 in poi, Telegram). In seguito all’Operazione Militare Speciale e all’incorporazione della Russia dei quattro oblast contesi, possiamo dire che il progetto di Nation-building in Ucraina è in procinto di fallire o necessitare una guerra nucleare globale per essere forzosamente riaffermato da NATO e UE. Se c’è una lezione da tutta questa storia che possiamo trarne è che quando si vuole riparare a ingiustizie storiche è sempre molto rischioso disegnare nuovi confini e considerare ogni specificità regionale di una lingua o di una cultura come un paese a sé stante da staccare dal resto del corpo nazionale, perché può sempre ritorcersi contro ed essere sfruttato ipocritamente da stati che si presentano come “post-nazionali” e “post-etnici”. Qui parliamo di una regione attraversata per millenni dalle migrazioni, sempre facente parte di grandi realtà statali, mancante di barriere naturali precise che avrebbero potuto permetterle di essere uno Stato a sé stante; la terra di confine a portata di tutti quando la legge internazionale fallisce, letteralmente la traduzione italiana di Ucraina.
“L’Italia è una espressione geografica”
L’Italia come realtà statuale ha più di 160 anni, da sempre è stata una realtà geografica ben distinta, ma l’Italia da quando è Nazione? C’è chi dice fin dai tempi dei romani, chi dice non lo è mai stata e non lo sarà mai e chi invece sta nel mezzo.
Un limite ultimo alla cronologia della creazione della nazione italiana, dal punto di vista sanguineo, sono sicuramente le migrazioni di massa dal sud al nord partite dagli anni Cinquanta del secolo scorso e che continuano. Fino a quel momento i matrimoni “misti” non erano occasioni comuni, seppur non rare. La televisione raggiunse l’obiettivo che si erano posti tanti letterati e tanti governi del passato, cioè ottenere la sostanziale unità linguistica della penisola tra gli abitanti di ogni ceto. Dunque, c’erano dei linguaggi parlati nella penisola prima della diffusione dell’istruzione universale, materia di dibattito se fossero lingue o dialetti e dovevano esserci sostanziali differenze culturali ed etniche tra nord, sud e centro per causare il trauma dell’integrazione nel secolo scorso. L’Italia fino al Sesto secolo ebbe come lingua comune il latino. I Longobardi furono i primi a tracciare una linea di demarcazione linguistica e in misura minore genetica tra nord e sud. La mescolanza comportava cambiamenti più culturali e linguistici che genetici, questi ultimi esprimibili come macchie sulla mappa peninsulare (Eupedia 2017 ).
La maggiore eredità genetica nella penisola italiana rimane oggi quella romana, seguita da quella greca e bizantina (Eurogenes Blog 10/11/19).
Dire che siamo “un miscuglione” è un’approssimazione tanto quanto proclamare una “razza pura”.
La lingua post latina e progenitrice dell’italiano risale al X secolo, anche se tra nord-ovest, nord-est, Toscana, centro, meridione e isole vennero intraprese strade differenti. Nonostante ciò, il latino continuò a essere usato come lingua comune, progressivamente affiancato dalla lingua fiorentina, per via della centralità della città nei commerci, nella finanza e nella cultura. Gli stati italiani, se erano uniti in qualcosa, lo erano nelle periodiche leghe antifrancesi chiamate dal Papa, quando non si scannavano tra di loro per assorbire principati e contee minori sulla base di ragioni strategiche.
Il Settecento fu il secolo in cui si risvegliarono le energie intellettuali italiane, dopo la precedente egemonia spagnola e la cappa controriformista, con intellettuali, professori e scienziati che girarono ogni parte d’Italia e si scambiarono conoscenze. La lingua letteraria e politica usata nella penisola, nel frattempo, assorbì così tanti elementi da non poterla più definire solo toscana, ma italiana. La distinzione tra l’amor di patria nel senso campanilista e l’amor di patria che presuppone libertà, uguaglianza e istruzione per tutti si trova in alcune dissertazioni degli anni Ottanta del Settecento.
Il concorso del 1796 intitolato Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, in cui quasi tutti proposero l’unità della penisola, in forma repubblicana centralista o come confederazione, fu una delle massime espressioni del dibattito pubblico nell’Italia settecentesca. Molto prima del Risorgimento si può parlare di “aver fatto” gli italiani, almeno dal punto di vista del ceto intellettuale borghese urbano, i quali volevano fare l’Italia. Elementi di una italianità condivisa fin dal secondo Quattrocento sono le numerose mappe della penisola che la intendevano come un’unica entità – divisa politicamente – l’enorme produzione artistica, musicale, architettonica, scientifica e letteraria etichettata come “italiana” all’estero senza farsi troppi dubbi sulle specificità regionali. Si può parlare dell’esistenza di continuum italiano dal 1200 fino a inizio Ottocento, quando la questione dell’unità nazionale divenne materia di chi si opponeva alla Restaurazione.
Il Risorgimento, checché ne dicano neoborbonici e leghisti, fu un fenomeno condiviso da tutta la penisola, coinvolgente numerose ideologie, sessantennale e conclusosi quasi inevitabilmente con la semplice espansione del Regno di Sardegna a danno degli altri stati peninsulari, per via dei fallimenti dei precedenti moti repubblicani, del supporto critico di molti di loro ai Savoia, dell’irreversibile stagnazione degli altri stati dopo brevi stagioni riformiste, dell’intraprendenza industriale e fitta rete diplomatica del Piemonte Sabaudo. Grande ferita del Risorgimento fu il brigantaggio meridionale combattuto dalle truppe sabaude tra il 1861 e il 1870, la reazione scatenata dai Borboni per tornare a Napoli – così come dal Papato – e simbolo dei limiti di una rivoluzione nazionale mancata nella mentalità degli italiani del tempo, concetto espresso sessant’anni dopo da Antonio Gramsci nelle sue riflessioni nel carcere fascista, influenzato forse anche dalle sue origini sarde.
Le regioni italiane furono istituite dalla Repubblica per decreto il 15 gennaio 1972, mentre si votava per le elezioni regionali dal 1970. Dal 1860 al 1970 l’ordinamento amministrativo italiano prevedeva solo le province, nel tentativo di imporre dall’alto una uniformità non ancora percepita dal basso.
Come far rivivere le identità locali senza attentare all’unità della Repubblica
Paesi Baschi, Catalogna, Navarra, Galizia, Provenza, Alsazia, Bretagna, Corsica, Sardegna, Sicilia, Sud Tirolo, Territorio Libero di Trieste, Székelyföld, Gagauzia e Transnistria sono veri e propri paesi all’interno di Francia, Italia, Spagna, Romania e Moldova.
La lotta armata con le entità statuali più grandi si è ciclicamente riproposta nelle congiunture storiche critiche. In Francia e Spagna oggi queste entità godono di un certo grado di autonomia, seppur la Storia sia ancora oggetto di contesa.
La Francia è un Paese densamente abitato e uno degli economicamente più forti dell’UE, nonostante abbia una fascia interna con poche persone ma il forte centralismo ha sempre pericolosamente minacciato uno spopolamento del paese verso le città portuali e la capitale macrocefala. Il pericolo di balcanizzazione in Francia ormai deriva dalle comunità islamiche mai assimilatesi.
Il modello spagnolo invece è eccessivamente decentrato per quelle che sono le differenze interne in termini linguistici. Il paese all’interno è quasi disabitato e servirebbe una politica energica e univoca per il suo ripopolamento. Questo sistema è stato già abusato da attori in mala fede per far implodere uno stato già di per sé economicamente debole; la popolazione catalana è divisa tra chi vuole l’indipendenza e chi vuole mantenere l’unione con la Spagna. Il movimento indipendentista catalano nel 2014 ebbe intersezioni esplicite con l’Unione Europea, ricercando sia un suo riconoscimento sia con la fuga del loro leader – ricercato in Spagna – verso Bruxelles.
Romania e Moldova sono paesi che da qualche decennio si sono ripresi dallo shock della transizione forzata da socialismo a capitalismo. Non è ancora possibile far scemare le tensioni interne tramite l’inserimento in un unico sistema globale, a meno che non sia l’alleanza militare condivisa contro la Russia o l’invasione di prodotti a basso costo in Europa Occidentale. Gli ungheresi di Romania e i russo-ucraini di Moldova, a differenza delle altre piccole nazioni di Francia e Spagna, hanno alle spalle Stati revisionisti delle paci cartaginesi di 1920 e 1992, con confini difficilmente difendibili.
Le leve per la destabilizzazione sono a portata di mano di agenti esterni nel caso in cui Francia, Spagna, Romania e Moldova si disallineassero dagli interessi atlantici. Le piccole nazioni possono essere riconciliate con quelle grandi solo se quest’ultime indirizzassero le loro energie assimilatrici verso un progetto più ampio di Nation building romanzo, allentando la pressione all’omologazione nei confronti di entità più piccole, senza però rinunciarvi all’amministrazione.
Oggi in Italia abbiamo regioni a statuto speciale, lingue protette, sagre, ricerche antropologiche, nostalgismi preunitari idealizzanti, comuni che si inventano palii mai esistiti, dipendenti regionali che guadagnano senza fare niente e una vasta scelta di canzoni in dialetto; ma anche un generale senso di disinteresse intergenerazionale e dall’italiano più ricco al più nullatenente. Qualsiasi governo che abbia veramente a cuore i destini del paese troverebbe soluzioni concrete per far tornare i lavoratori più giovani in Italia, ostacolare in ogni modo l’autonomia differenziata e rimediare ai fenomeni di disquilibrio demografico tra nord, centro, sud e isole.
Sconsiglio espressamente a chiunque riuscisse a stabilire un nuovo ordine in Italia il copia incolla della mania sovietica di creare repubbliche federate. Non bisogna ripetere gli errori del passato o proporre in modo anacronistico e anti-dialettico un ritorno a esso. Il percorso auspicabile in mia opinione è l’abolizione sia delle regioni sia delle province, in favore della creazione di unità amministrative di dimensioni intermedie con statuti uniformati. Alcune delle regioni attuali ricalcano i confini del 1859 ma quegli stessi confini furono a loro volta generati nei secoli dalla sopraffazione di uno Stato sull’altro. Argomento che non esistono limiti per valorizzare nuove realtà come: il Saluzzo, l’Insubria, la Valtellina, la valle dell’Adda, il veronese, il litorale triestino, l’Emilia, la Romagna, il lucchese, il senese-grossetano, il piombinese, l’arcipelago elbano, la Sabina, il viterbese, le Terre del Lavoro, il Sannio, il Salento, la parte sicula della Calabria e quella corsa della Sardegna.
Greci, arbereshe, tedeschi, sloveni, ladini e provenzali dovrebbero avere proprie amministrazioni. Ognuna di queste suddivisioni dovrebbe avere politiche solide e persistenti per la preservazione del patrimonio demo-etno-antropologico. Ovviamente questo patrimonio va studiato per riproporlo sempre di più nella modernità, esteticamente e mentalmente in sintonia con essa. I poteri e le organizzazioni politicamente coscienti di Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Romania, Moldova e Malta dovrebbero convergere nel porre le basi per l’effettiva emergenza della “Super Nazione” neolatina, per affrontare la sfida di un secolo dove l’equilibrio tra le grandi potenze è tornato a essere argomento di forte dibattito, in seguito al fallimento dell’ecumenismo americano.
I socialisti d’Italia non rigettano l’internazionalismo, il quale va ricercato sia con i paesi extra-europei sia con quelli europei, i nostri vicini di casa, cugini e fratelli apparentemente lontani. Grecia e Albania, per ragioni già espresse, non dovrebbero essere ignorate per questo progetto.
Così come l’esperanto esiste l’Interlingua, un progetto nato nel 1951 per creare una lingua romanza comune. Essa ha solo bisogno di istituzioni politiche interessate, fondi per la sua pubblicizzazione e insegnamento e un numero sufficiente di persone con forti interessi per impararla.