Di Alessandro Caparrucci
Cesare, oso com’è, se ne impipa, e inferrifoca i propugnacoli – o, per meglio dire, i bordelli- dei plutocrati, dei gesuiti e dei buonsensai che posano eroicamente a guisa di paladini della giustizia sociale. Cesare toglie e annichila, ma al contempo edifica e distribuisce: ello, difatti, dà agl’uvrieri le opificine; ai contadini le terre da sempre golate; e ai summentovati agnodei, borghesupoli e avari, invece, inobliabili benedizioni con il santo martello della giustizia socialista, mediterranea, umana. Cesare inzolfana col suo socialismo italico, che non è carità parrocchiale nettampoco previdenzialismo da socialdemocrazia, gl’operieri italici martoriati, e rende il suolo italide un’Atene operaia, una nuova repubblica dei Soviet.
Nulla da fare: la ricchezza sarà ridistribuita.
La Repubblica sarà pei giovani, i lavoratori, gli anziani, i soldati: onesti, patrigeri, fedeli all’Idea e allo Stato Rivoluzionario ch’è inveramento della volontà del popolo, il quale anima Cesare nelle sue asperrime pugne. Ad Albione tremano le gambe, e forse pure il portafogli, mentre allo sfiancagiumenti Sam trema la propria casa, il proprio accogliente focolare domestico: la libera muratoria. Sono più che mai scienti del fatto che la loro leonità li condurrà a ire ad patres, senza condizionale o assoluzione della pena, e allorché arriverà un Robespierre della spiga di grano e della ruota dentata, non potranno mai sfuggire alla loro tragica, ma agognata fine.
Grafica di Giovanni Amicarella