Da ormai diversi giorni, lo Stato sionista sta colpendo molto duramente la striscia di Gaza con attacchi dal cielo. L’intensità dei bombardamenti aerei su Gaza da parte dell’entità sionista da metà ottobre ad oggi è tale da essere equivalente alla bomba atomica di Hiroshima, anche se, Gaza è un territorio di 365 kmq, con più di tre milioni di abitanti, quindi, si può facilmente immaginare cosa significhi bombardare con quell’intensità un tale territorio, significa provocare una disastrosa catastrofe umanitaria che raramente si è verificata nella storia dell’umanità. Per quanto la propaganda sionista possa abbaiare che i gruppi armati palestinesi hanno le loro basi in obiettivi civili, come gli ospedali, sta sempre più venendo a galla come, nella maggior parte dei casi, siano solo scuse usate in modo propagandistico e nient’altro. Dopo settimane di bombardamenti molto intensi e dopo che lo stato sionista ha tagliato acqua, cibo, elettricità, internet e carburante agli abitanti di Gaza, è iniziata la sera del sabato 28 ottobre, la famigerata “invasione di terra”. Il livello delle barbarie raggiunto ricorda molto quello raggiunto durante le guerre mondiali, e va contro ogni norma di diritto internazionale. Di fronte a tali atrocità così disgustose, chiunque sia dotato di coscienza, non può rimanere impassibile, si tratta di un evento che senza alcun dubbio tocca gli animi nel profondo.
Eppure troviamo nei mezzi di comunicazione ed, ancor peggio, personaggi politici e diplomatici affermare che “Israele ha diritto di difendersi”, si tratta di uno slogan detto in evidente malafede, dato che nella gran parte delle volte, sono gli stessi che dal 24 febbraio 2022 hanno ipocritamente riempito ogni dibattito pubblico presente in Italia con frasi del tipo “c’è un aggressore ed un aggredito” ed appellandosi a norme di diritto internazionale, che però hanno tralasciato il fatto che secondo il loro tanto caro diritto internazionale, è Israele che sta occupando la Palestina NON viceversa, in particolare, si veda l’articolo 42 della convenzione dell’Aja, ai sensi del quale è Israele è la potenza occupante, dal momento che nei territori palestinesi, l’entità sionista controlla lo spazio aereo, lo spazio elettromagnetico, la moneta ed anche l’accesso a risorse a beni di prima necessità. Nel caso di Gaza, anche il controllo delle acque marine, dunque, Israele ha un effettivo controllo sul territorio, di conseguenza, lo status di “potenza occupante” ad Israele è già stato riconosciuto da molto tempo da risoluzioni sia del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dall’Assemblea Generale, non è per nulla rilevante in questo senso il fatto che Israele abbia ritirato i coloni da Gaza nel 2005. Quindi, si può affermare quello che sta facendo in questo momento Israele, non è in alcun modo da considerare come “legittima difesa”, è da considerare come un’ulteriore aggressione motivata da sentimenti di vendetta. E invece cosa dice il diritto internazionale sui palestinesi? Hanno il diritto di difendersi tramite la lotta armata? La risposta è: assolutamente sì, molte sentenze dell’Assemblea Generale dell’ONU hanno affermato che è legittimo affermare la propria autodeterminazione manu militari, quindi la frase slogan di poc’anzi, “Israele ha il diritto di difendersi”, non solo non è vera, neanche per quanto riguarda la risposta ai fatti avvenuti nel sette ottobre, poiché si tratta di un regime di occupazione attuato da parte del Governo sionista. Ma sarebbe vera se fosse al contrario, “la Palestina ha diritto di difendersi”. Tuttavia, per onor del vero, va affermato che sempre il diritto internazionale afferma che sia la potenza occupante, sia chi sta combattendo per la propria autodeterminazione, debbano in ogni caso proteggere i civili non importa se questi siano o meno schierati con una delle due parti, devono essere protetti, cosa che però nessuna delle due parti ha fatto, ciò porta Israele inevitabilmente in fallo.
In questo contesto, così tragico, abbiamo spesso sentito accusa rivolta ad entrambi di “crimini di guerra”. In questo caso vanno fatte due distinzioni, la prima è responsabilità penale individuale, la seconda è la responsabilità dell’organizzazione statale o parastatale. Nel caso di Hamas, chiaramente, la risposta del 7 ottobre va contro il diritto internazionale, in quanto sono stati presi come ostaggi anche civili. Ma nel caso dell’entità sionista, le responsabilità sono indubbiamente molto più gravi. Anzi, ci sono addirittura i requisiti per parlare di “crimini contro l’umanità”, e questo non solo in merito agli scontri attuali, già nel 2021, la Corte penale internazionale ha aperto un fascicolo sui territori palestinesi occupati. A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che lo stato sionista non ha mai ratificato lo statuto della corte penale internazionale. Ed infatti, la mancanza di ratifica fa sì che Israele non verrà “indagata” per eventuali violazioni all’interno dei suoi confini, però, i reclami palestinesi fanno (o meglio, dovrebbero fare) scattare le indagini sui territori occupati. Sono da considerarsi come “crimine di guerra e crimine contro l’umanità” da parte di Israele anche il fatto che ha limitato l’accesso ai palestinesi a beni di prima necessità come cibo ed acqua (divieto di “starvation”). Anche gli avvisi che le forze militari sioniste hanno mandato ai civili con l’intento di spostarli verso l’Egitto è da considerarsi tale. Finita questa premessa di natura giuridica, è bene analizzare un altro aspetto, ovvero, come la guerra in corso in Medio Oriente stia cambiando gli equilibri. La prima cosa da tenere in considerazione è che questa guerra, è scoppiata in un contesto molto particolare, quando sembrava che la gran parte dei paesi mediorientali fossero in un clima di “distensione” con lo stato sionista. Il primo paese da tenere in considerazione è l’Arabia Saudita, infatti, appena un mese prima dei fatti del 7 ottobre, l’attenzione del mondo era incentrata sugli enormi progressi che entrambi i paesi stavano facendo per normalizzare le relazioni di entrambi i paesi sotto la supervisione della Casa Bianca. Tanto che lo stesso principe ereditario saudita, Mohamed Bin Salman aveva affermato che la normalizzazione dei rapporti tra entrambi i paesi fosse “ogni giorno più vicina”. Ma dopo quello che è successo il 7 ottobre cosa è cambiato? Per l’Arabia Saudita, che prima era paladina della causa palestinese, la prova di resistenza che i palestinesi hanno mostrato, ha messo in serio imbarazzo l’intera casata saudita, che ha criticato aspramente l’operato di Israele (senza però prendere alcuna contromisura). Tuttavia il processo di avvicinamento tra Arabia Saudita e Stato sionista, malgrado abbia subito una brusca battuta d’arresto non si è certo arrestato. Anzi, Netanyahu nel corso di un’intervista ha detto che dopo aver ottenuto la sua vittoria (leggasi pulizia etnica) a Gaza ha confermato come lo Stato sionista abbia intenzione a riprendere i lavori di normalizzazione con l’Arabia Saudita, tutt’oggi considerata da Tel Aviv come un partner “affidabile”, e questo trova conferma nel fatto che, malgrado molti intellettuali sauditi avessero proposto un nuovo embargo petrolifero, in risposta al supporto occidentale ad Israele, questa proposta non è neppure stata presa in considerazione, sia nel fatto che una eventuale sconfitta di Hamas e dei gruppi armati vicini all’Iran, acerrima nemica dell’Arabia Saudita, sembrano spingere gli apparati del potere saudita ancor più nelle mani di Israele, rinnovando il suo desiderio di rinforzarsi sempre di più in funzione anti-iraniana. Tra i progetti che lo Stato Saudita contava di portare a termine tramite una collaborazione con Israele è compreso un programma di deterrenza nucleare.
Se questo progetto dovesse concretizzarsi, allora assisteremo ad un Medio Oriente assai più “americanizzato”, con una Cina in difficoltà nel proporsi verso l’Occidente, (che infatti si era fatta promotrice di un altro accordo, che però aveva il fine di normalizzare le relazioni tra Iran ed Arabia Saudita), ed una Palestina abbandonata a sé stessa. L’altro attore più rilevante nella scacchiera mediorientale è senza dubbio l’Iran, che forse nella regione è l’unico attore veramente in grado di distruggere l’entità sionista. Tuttavia sembra assai difficile che l’Iran prenda una decisione del genere. Anche se, non direttamente coinvolta, non va dimenticato che Teheran è un importante punto di riferimento per moltissimi movimenti di ispirazione islamica attivi in Medio Oriente, a cui fornisce ogni genere di sostegno, politico, economico e militare. A partire dagli anni ‘80, infatti, l’Iran ha favorito la nascita e lo sviluppo di movimenti e milizie all’interno della regione che poi sono confluite in una variegata diramazione in tutto il Medio Oriente, composta sia da milizie e movimenti politici che da veri e propri governi, come la Siria di Bashar Al-Assad. Si pensi per esempio a Hezbollah, il partito-milizia nato nel contesto della guerra civile libanese, che in realtà, a dispetto da quello che può sembrare, è molto più importante di Hamas. Il fronte del Libano è infatti quello più delicato, la milizia sciita conta all’incirca un centinaio di migliaia di combattenti attivi, non riservisti.
Di conseguenza, Israele sa che se dovesse affrontarli direttamente, sarebbe un bagno di sangue per entrambi gli schieramenti, ne abbiamo avuto prova quando Israele ha provato a prendersi nel 2006 alcune località nella linea blu, e lo sconto portò ad enormi perdite. Un altro attore importante, coinvolto in questa guerra e che è molto legato all’Iran è Ansar Allah, comunemente conosciuti col nome di Houti. Si tratta di un’organizzazione politica e militare di fede sciita (anche se non di confessione duodecimana, come invece lo è l’Iran), che ha avuto un ruolo protagonista nella guerra civile in Yemen. Tuttavia, da marzo 2023, l’accordo sponsorizzato da Pechino che ambisce ad una normalizzazione tra Arabia Saudita e Iran, ha fatto sì che i combattimenti riducessero la loro intensità, anche se non si sono veramente interrotti. Il movimento Ansar Allah recentemente è riuscito a compiere azioni ad attaccare con droni e missili alcuni obiettivi israeliani ed americani, fino a minacciare recentemente alcune navi americane, mostrando quindi alcune crepe nella dottrina di guerra marittima americana, non abituata a forme di guerra più “irregolari”, da questi attacchi ne è relativamente stato danneggiato il commercio internazionale, poiché la gran parte delle merci viaggia via mare.
Ed infine, un altro movimento direttamente coinvolto in questo conflitto e legato all’Iran è Hamas. Non sorprende quindi che Israele abbia più volte accusato l’Iran di essere coinvolta negli attacchi del 7 ottobre, ma Teheran ha negato ogni responsabilità. Tuttavia, va ripetuto che, anche se al momento pare sia proprio lo Stato persiano quello che ha le capacità di distruggere l’entità sionista, tuttavia l’Iran molto difficilmente prenderà una decisione del genere, poiché sia le perdite che un eventuale conflitto comporta, sia l’eventuale “risposta nucleare” ed anche l’eventuale “risposta americana”, significherebbero per l’Iran l’autodistruzione. In più, abbiamo già avuto modo di vedere che sia le recenti proteste, sia durante la guerra di Artsakh, lo stato iraniano ha un po’ di difficoltà nel tenere testa alle spinte autonomistiche o indipendentiste al suo interno. In questo complicato quadro, si fa un errore se non si accenna anche alle ambizioni turche in Medio Oriente. Come ormai è ben noto il presidente Recep Tayyp Erdoğan, ha definito Hamas come “combattenti per la libertà” (opinione molto diffusa tra chi è costretto a vivere sotto occupazione sionista), provocando la rottura dei rapporti diplomatici da parte di Tel Aviv.
Tuttavia le ambizioni turche per la Terra Santa non risalgono al 7 di ottobre sono molto più antiche addirittura già nel 2020 aveva affermato come “Gerusalemme sia la linea rossa”. Anche se, vi è da ammettere che Ankara, è stata presa “alla sprovvista”, potremmo dire dagli attacchi Hamas il 7 ottobre, prova ne è il fatto che Erdoğan ha avuto un incontro con Netanyahu a New York un mese prima del conflitto. Questo ha messo in imbarazzo le istituzioni della Turchia, e di conseguenza, lo stato turanico, in questo conflitto mette “il piede in due scarpe”. Poiché se da una parte continua ad avere rapporti molto stretti con i paesi che hanno firmato gli accordi di Abramo, dall’altra ha legami molto stretti con il Qatar, paese assai legato ad Hamas, dove vi è anche una base militare con 5.000 soldati turchi. Tuttavia non va dimenticato come, malgrado la guerra che sta infuriando in Palestina, ed il ritiro dei diplomatici israeliani dalla Turchia, Israele non ha mai smesso di inviare armi all’alleato della Turchia per eccellenza, l’Azerbaijan, aiutando quindi le ambizioni panturaniche di Ankara.
Però, in questo caso non si può non rilevare che nello scenario mediorientali, la Turchia si trova in una posizione in cui da una parte le piacerebbe ergersi al ruolo di “guida dei paesi musulmani”, dall’altra ha già firmato importanti accordi con Israele ed i paesi filo israeliani. Solo il futuro saprà dirci se e come la politica estera turca cambierà a seguito del conflitto. Infine, altra area da analizzare è la Cisgiordania, dove i coloni sionisti, approfittando del fatto che l’attenzione del mondo sia incentrata a Gaza stanno massacrando civili palestinesi al fine di guadagnare terreno e postazioni con l’aiuto dell’esercito. Queste azioni, che si sommano al conflitto a Gaza ed il relativo spostamento forzato della popolazione (verso l’Egitto nel caso di Gaza, verso la Giordania nel caso della Cisgiordania), stanno però destabilizzando i due paesi con cui faticosamente Israele era riuscita a fare degli accordi (Egitto e Giordania). La massima ambizione dei coloni israeliani è quella di riuscire ad annettere tutta o buona parte della Cisgiordania e causare un’altra “Nakba”, che a detta loro potrebbe avvenire già nel 2024. E questo significherebbe la fine di ogni speranza per i palestinesi e la fine dello Stato di Giordania (ricordiamo che la monarchia Hashemita non ha mai gradito per niente i profughi palestinesi). Tuttavia va rilevato che ciò potrebbe significare anche la fine del perenne stato di emergenza che dal 1948 ad oggi permea la mente degli israeliani, che ha fatto sì che Israele vivesse con dei confini mai del tutto stabiliti. Ma de facto, è proprio questo stato di emergenza anche l’unica cosa che ha tenuto unita l’eterogenea società israeliana. Come già nel 2015 il presidente sionista Rivlin fece notare, Israele era già sull’orlo di uno scontro interno per via della troppa frammentazione al suo interno, quindi il giorno in cui lo Stato sionista si troverà senza più alcun nemico esterno da combattere, sarà probabilmente l’inizio della sua fine.