Una visione critica sull’esperanto, utile anche a chi lo studia, per evitare certi facili tranelli utopistici come l’errore del considerare una lingua l’unico strumento necessario ad un cambiamento nazionale e internazionale. Senza un indirizzo politico, un progetto prettamente culturale è sempre destinato alla deriva.
Di Antonio Gramsci, da Il grido del popolo – settimanale socialista n. 708/1918
È utile in questo momento un problema come quello della lingua unica? Se esso è veramente un problema e non una questione bizantina, io credo di sì. Persuaso che tutto ciò che è attività storica dell’uomo sia una unità, che il pensiero sia una unità, vedo nella risoluzione di uno qualsiasi dei problemi di coltura la risoluzione potenziale di tutti gli altri, e credo utile abituare le intelligenze a cogliere questa unità nel molteplice aspetto della vita, abituarle alla ricerca organica della verità e della chiarezza, ad applicare i principi fondamentali di una dottrina a tutte le contingenze.
L’intransigenza si attua nel pensiero prima che nell’azione, e deve attuarsi per tutto il pensiero come per tutta l’azione. Solo quando noi ci siamo allenati a tutte le difficoltà della logica, a cogliere tutte le conseguenze tra idea e idea, e tra pensiero e azione, possiamo dire di essere veramente noi, di essere veramente responsabili delle nostre opere, perché allora possiamo prevedere le ripercussioni probabili di ogni nostra opera nell’ambiente sociale ed economico, e di queste ripercussioni possiamo lodare o biasimare noi stessi, e non lasceremo all’arbitrio, al gioco di forze estranee alla nostra comprensione il tirare le somme della nostra varia attività.
I fautori della lingua unica si preoccupano del fatto che mentre nel mondo c’è una certa quantità di uomini che vorrebbero comunicare tra loro direttamente, esiste un’infinità di lingue diverse, che limitano la potenzialità comunicativa. È questa una preoccupazione cosmopolitica, non internazionale, di borghesi che viaggiano per affari o per divertimento, di nomadi, più che di cittadini stabilmente produttivi. Costoro vorrebbero arbitrariamente suscitare delle conseguenze, che non hanno ancora le necessarie condizioni, ed essendo la loro attività solamente arbitraria, non riescono che a far perdere del tempo e dell’energia a chi li prende sul serio. Vorrebbero suscitare artificialmente una lingua irrigidita definitivamente, che non soffra cambiamenti nello spazio e nel tempo, urtandosi nella scienza del linguaggio, che insegna essere la lingua in sé e per sé espressione di bellezza più che strumento di comunicazione, e la storia della fortuna e del diffondersi di una particolare lingua dipendere strettamente dalla complessa attività sociale del popolo che la parla.
Questa preoccupazione della lingua unica ha avuto momenti e manifestazioni diverse. Sorta per impulso dell’Illuminismo francese del secolo XVIII avrebbe dovuto suscitare la lingua della Cosmopoli borghese, dell’unità di pensiero borghese creata dalla propaganda degli enciclopedisti. Caterina II di Russia fece spendere allo Stato un mucchio di quattrini per la compilazione di un dizionario di tutte le lingue, bozzolo della farfalla interlinguistica. Ma il bozzolo non maturò, perché nessun germe vitale vi era contenuto.
In Italia questa preoccupazione divenne nazionale, si espresse nell’Accademio della Crusca, nel Purismo, nel Manzonismo. Il Purismo poneva un’ideale di lingua definitiva: la lingua degli scrittori del ‘300 e del ‘500, che avrebbe dovuto perpetuarsi , perché la sola lingua bella, la sola vera lingua italiana. Ma la bellezza di una lingua non è posta nel tempo e nello spazio: essa non esiste neppure. Non la lingua è bella, ma i capolavori poetici, e la bellezza loro consiste nell’esprimere adeguatamente il mondo interiore dello scrittore. Così che è tanto bello un verso della Divina Commedia quanto l’espressione di ingenua meraviglia di un bambino che ammira un giocatolo.
Il Manzoni si pose il quesito: come si può creare la lingua italiana, ora che è fatta l’Italia? E rispose : è necessario che tutti gli italiani parlino il toscano, è necessario che lo Stato italiano arruoli i maestri elementari in Toscana: si sostituirà il toscano ai numerosi dialetti che le varie regioni parlano, e fatta l’Italia, sarà fatta anche la lingua italiana. Il Manzoni riuscì a trovare appoggio nel Governo, riuscì a fare intraprendere la pubblicazione di un “Novo Dizionario” che avrebbe dovuto contenere la vera lingua italiana. Ma il “Novo Dizionario” rimase a metà, e i maestri furono arruolati fra le persone colte di tutte le regioni d’Italia. Era avvenuto che uno studioso della storia del linguaggio, Graziadio Isaia Ascoli, alle centinaia di pagine del Manzoni aveva contrapposto una trentina di pagine per dimostrare: che neppure una lingua nazionale può essere suscitata artificialmente, per imposizione di Stato; che la lingua italiana si sta formando da sé, e si formerà solo in quanto la convivenza nazionale abbia suscitato contatti numerosi e stabili tra le varie parti della nazione: che il diffondersi di una particolare lingua è dovuto all’attività produttrice di scritti, di traffici, di commercio degli uomini che quella particolare lingua parlano. La Toscana nel ’300 e nel ‘500 ha avuto scrittori come Dante, Boccaccia, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini, che hanno diffuso la lingua toscana; ha avuto banchieri, artigiani, manifatturieri che portavano in tutta Italia i prodotti toscani e i nomi di questi prodotti; dopo ha ristretto la produttività di merci e di libri e quindi ha ristretto anche la produttività di lingua. Il prof. Alfredo Panzini ha pubblicato pochi anni fa un dizionario della lingua parlata moderna e da esso appare quanto milanesismi siano arrivati persino in Sicilia e in Puglia. Milano manda giornali, riviste, libri, merci, commessi viaggiatori in tutta Italia, e manda quindi anche alcune peculiari espressioni della lingua italiana che i suoi abitanti parlano.
Se non può nel ristretto campo nazionale imporsi una lingua unica che pure è parlata in una regione ed ha una sorgente viva a cui riferirsi, come potrebbe affermarsi una lingua internazionale, tutta artificiale, tutta meccanica, priva di ogni storicità, di ogni suggestione di grandi scrittori, priva di quella ricchezza espressiva che viene dalla varietà dialettale, dalla varietà delle forme assunte nei diversi tempi? Ma si risponde, l’Esperanto non vuole che essere una lingua ausiliaria , e poi la migliore ragione della sua esistenza, è nel fatto che già più di un milione di uomini la parlano, e nei Congressi internazionali esso permette di fare a meno degli interpreti e di lavorare rapidamente. Si dice: gli esperantisti fanno come quell’uomo che camminava davanti al filosofo che negava il moto. Ma non è satto il paragone: gli esperantisti si comprendono tra loro nei congressi tra esperantisti, così come in un congresso di sordomuti questi si comprenderebbero tra loro a segni ed ammicchi. Non perciò noi consiglieremmo ad
alcuno di imparare il linguaggio dei sordomuti. In un Congresso dove dovessero comunicarsi concetti e ragionamenti che hanno una lunga storia, che sono il momento attuale di un divenire storico che dura da secoli, l’uso dell’Esperanto sarebbe una pastoia del pensiero, costringerebbe a deformazioni e generalizzazioni, a imprecisioni curiosissime e pericolosissime. Inoltre: i rappresentanti dei Congressi dovrebbero essere scelti tra gli Esperantisti, introducendo un criterio di scelta tutto esteriore alle idee e alle correnti politiche. La ragione del movimento non è quindi altro che un sofisma che può impressionare solo per un istante. E cade anche l’ausiliarità dell’Esperanto. Quanto sarebbe ausiliario l’Esperanto? E a chi ? La maggior parte dei cittadini esplica sua attività stabilmente in un luogo fisso, e non deve troppo spesso avere corrispondenza epistolare con l’estero. Convinciamocene: l’Esperanto, la lingua unica non è altro che una ubbia, una illusione di mentalità cosmopolitiche, umanitarie, democratiche, non ancora rese fertili, non ancora smagate dal criticismo storico.
Quale atteggiamento devono prendere i socialisti in confronto dei banditori di lingue uniche, degli esperantisti? Sostenere semplicemente le proprie dottrine, e combattere quelli che vorrebbero il Partito si faccia sostenitore, e propagatore ufficiale dell’Esperanto (nella Sezione milanese deve esistere ancora una interpellanza del compagno Seassaro, che esplicitamente domanda l’esperantizzazione del Partito) I socialisti lottano perché siano suscitate le condizioni economiche e politiche necessarie necessarie per l’avvento del collettivismo e dell’Internazionale. Quando l’Internazionale sarà, è probabile che i contatti maggiori tra popolo e popolo, le immigrazioni regolari e metodiche di grandi masse lavoratrici portino lentamente a un conguagliamento delle lingue ario-europee, e probabilmente alla diffusione di esse in tutto il mondo, per la suggestione che la nuova civiltà eserciterà sul mondo. Ma questo processo può solo avvenire liberamente e spontaneamente. Le spinte linguistiche avvengono solo dal basso in alto; i libri poco influiscono sui cambiamenti delle parlate: i libri fanno opera di regolarizzazione, di conservazione delle forme linguistiche più diffuse e più antiche. Ciò che succede per i dialetti di una nazione, che lentamente assimilano le forme letterarie , e perdono i loro caratteri particolaristici, avverrà probabilmente per le lingue letterarie in confronto di una lingua che le superi. Ma questa potrebbe anche essere una delle attuali, la lingua per esempio del primo paese che instauri il socialismo, che per questo fatto diverrebbe simpatica: sembrerebbe bella, perché con essa si esprime la civiltà nostra affermatasi in una parte del mondo, perché in essa saranno scritti i libri non più di critica, ma di descrizione di esperienze vissute, perché in essa saranno scritti romanzi e poesie che vibreranno della vita nuova instaurata, dei sacrifici per consolidarla, delle speranze che da per tutto si avveri lo stesso fatto.
Solo lavorando per l’avvento dell’Internazionale i socialisti lavoreranno per l’avvento possibile della lingua unica. I tentativi che ora si possono fare, appartengono al regno di Utopia, sono un portato della stessa mentalità che vorrebbe i falansteri e le colonie felice. Ogni strato nuovo sociale che affiora alla storia, che si organizza per la buona battaglia, immette nella lingua correnti nuove, usi nuovi e fa scoppiare gli schemi fissi che i grammatici hanno stabilito per comodità occasionale di insegnamento. Non c’è nella storia, nella vita sociale, niente di fisso, di irrigidito, di definitivo. E non ci sarà mai. Nuove verità accrescono il patrimonio della sapienza, nuovi bisogni, sempre superiori vengono suscitati dalle condizioni nuove di vita, nuove curiosità intellettuali e morali pungono lo spirito e lo obbligano a rinnovarsi, a migliorarsi, a mutare le forme linguistiche di espressione, prendendone da lingue straniere,
facendo rivivere forme trapassate, cambiando significato e funzioni grammaticali. E in questo continuo sforzo di perfezione, in questo fluire di materia vulcanica liquefatta, bruciano e si annichilano le utopie, gli atti arbitrari, le vane illusioni, come quella dell’attuale lingua unica e dell’Esperanto.