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Di Moreno

La campagna propagandista che la borghesia mondiale ha messo in campo non ha eguali nella storia recente ed è probabilmente più feroce e meno giustificata della già sperimentata campagna anti russa: questo a conferma del fatto che Israele non è una semplice potenza regionale, bensì un anello fondamentale del mondo imperialistico a guida americana. Oggi come oggi sostenere il popolo palestinese significa sostenere il “terrorismo islamico” e rasenta sostanzialmente il crimine.
Per rendere onore alla verità storica e comprendere meglio il ruolo da protagonista che Israele ha nel mondo capitalistico e imperialista è necessario ripercorre alcune tappe del progresso storico che ha condotto un piccolo movimento di nazionalisti borghesi ebrei a diventare una delle principali potenze ideologiche mondiali, influenzando la stessa politica estera statunitense in funzione degli interessi israeliani.
Il primo concetto da metabolizzare per comprendere l’origine e lo sviluppo d’Israele è che il progetto sionista non è una questione religiosa tout court: il movimento sionista nasce e si sviluppa nell’alveo di quella rinascita nazionale di matrice borghese che caratterizzò gran parte dell’Europa dell’800′. Il fatto che molti ebrei ortodossi si dichiarino apertamente antisionisti non deve stupire nessuno: in un certo senso l’esistenza di Israele è una forzatura in antitesi con i precetti religiosi ebraici tradizionali, il sionismo si propone sostanzialmente di ricostruire artificialmente il Regno d’Israele senza attendere la venuta del Messia, il cui arrivo è avvicinabile solo seguendo la volontà di Dio espressa dai precetti (mitzvòt).
Il fondatore del sionismo, Theodor Herzl, ebbe non per niente a dire: «Non ritengo il problema ebraico né come un problema sociale, né come un problema religioso, sebbene possa prendere anche queste ed altre sfumature. Esso è un problema nazionale»; nella mentalità di Herzl, impregnata di spirito asburgico, quello israeliano era un problema principalmente territoriale, da risolversi anche mediante soluzioni plurinazionali.


Rapporti fra sionismo revisionista e fascismo italiano

Il sionismo fu nel complesso tuttavia un movimento eterogeneo, dotato di un’ala laica-”progressista” e di un’ala ferocemente nazionalista, conosciuta come sionismo revisionista, del quale gli attuali nazionalisti del Likud e in generale l’ultradestra al potere in Israele sono, volenti o nolenti, figli spirituali.
Il partito revisionista nacque a partire da una scissione dell’Organizzazione Sionista nel 1935, portando alla nascita della “Nuova Organizzazione Sionista”, il cui primo leader sarà Jabotinsky, personaggio tutt’altro che marginale nella storia israeliana se consideriamo che attualmente in Israele ben 57 siti fra piazze, strade e parchi sono intitolati a suo nome, rendendolo così la figura storica più commemorata d’Israele.
Nella prima edizione della Grande Enciclopedia Sovietica del 1932 egli venne definito come «uno dei più promettenti nemici del bolscevismo», ricordando il supporto ch’egli offrì a Petliura nel corso della guerra civile, organizzando forze di autodifesa ebraica in funzione anti-sovietica. Jabotinsky era sempre stato infatti un ammiratore del nazionalismo ucraino, nonché, successivamente, estimatore dal fascismo italiano, tanto da farsi promotore della scuola marittima ebraica di Civitavecchia, dalla quale usciranno molti futuri esponenti di primo piano della marina mercantile e militare dello Stato d’Israele.
Da una lettera di Jabotinsky indirizzata agli studenti di Civitavecchia leggiamo: «non criticate l’ordine esistente in Italia, quell’ordine sotto la cui protezione vi è stata offerta la possibilità di frequentare codesta scuola; non criticate nemmeno l’ordine preesistente. Se vi domandano il vostro credo politico e sociale rispondete: Sono un sionista. Il mio ideale è uno Stato ebraico e nel nostro paese (la Russia) mi oppongo alla lotta di classe. Questo è tutto il mio credo!».
In un articolo della stampa israelitica italiana del 1935 leggiamo invece: «Dopo altri brevi discorsi del prof. Mendes, dell’avv. Bassan e dell’allievo Kolitz, i giovani hanno fatto echeggiare il loro saluto al Duce e all’Italia che così maternamente li accoglie, ed hanno intonato gli inni di Giovinezza e la Hattikvah».
In generale il movimento sionista revisionista intratterrà a lungo ottimi rapporti con il fascismo italiano, ispirandosi a quel modello che per molti in Europa era l’ultimo baluardo contro la “pericolosa lotta di classe”, che da Mosca rischiava di espandersi in Europa minacciando il dominio della borghesia, ivi compresa la borghesia ebraica, da sempre vicina ai precetti del sionismo.
E se non pochi furono gli ebrei proletari che trovarono la speranza nella bandiera rossa, altrettanti
furono gli ebrei borghesi che auspicarono la vittoria della reazione zarista al fine di preservare il
proprio potere e la propria ricchezza.

Sionismo e controrivoluzione in Russia

Come leggiamo in un articolo della rivista ebraica Tablet intitolato “I Rothschild russi”: «All’inizio della guerra civile, un numero sorprendente di ebrei russi simpatizzava per l’Armata Bianca. La maggior parte degli ebrei non era rivoluzionaria: persino il Bund, il più grande partito radicale ebraico, nel 1917 raccoglieva solo il 15-20% dei consensi nella comunità ebraica. In effetti, dopo la Rivoluzione del 1905, quando disordine e pogrom sembravano andare di pari passo, molti ebrei vedevano persino il cattivo governo della monarchia come preferibile all’anarchia della rivoluzione.
I bianchi erano, almeno formalmente, impegnati nel liberalismo e, all’inizio della guerra civile, molti vedevano in loro la prospettiva del ripristino della legge e dell’ordine. Entrambi i Gunzburg si
unirono alla causa bianca nel 1918; solo nel 1919 i bianchi sarebbero stati coinvolti nei pogrom su larga scala. Per Berza e Gino Gunzburg, cresciuti in una casa ferocemente devota alle idee della
Russia e del liberalismo, l’Armata Bianca poteva sembrava il male minore. (…) non solo il sostegno degli ebrei ai comunisti non doveva essere dato per scontato, ma per alcuni, soprattutto per i settori
ricchi e conservatori dell’ebraismo russo, i bianchi possono essere sembrati, per un momento, i possibili salvatori degli ebrei russi.».


Sionismo e Nazismo

Nonostante gli ottimi rapporti che il Sionismo Revisionista intrattenne con il fascismo italiano, che per lungo periodo si fece anche promotore della creazione di uno Stato ebraico, altrettanto è difficile affermare per quanto riguarda il nazismo hitleriano, del quale l’ultranazionalismo ebraico fu, chiaramente, irriducibile nemico.
Tuttavia è interessante citare un estratto di un articolo (Zionist Agency of American Imperialism) del sovietico M. Mitin: «Il movimento sionista, nelle persone dei suoi leaders ed ispiratori, non era contrario ad entrare in contatto anche con il fascismo hitleriano. È di pubblico dominio che i finanzieri ebrei in America, gli uomini che sovvenzionavano i sionisti, contemporaneamente, avevano profuso denaro per Hitler prima del suo avvento al potere. Incidentalmente, la riunione tra Von Papen e Hitler, che ebbe luogo poco prima che il fascismo fosse instaurato in Germania, si tenne nelle stanze del Barone Kurt von Schroeder, direttore della Banca Stein (che era connessa con il movimento sionista) e corrispondente per le imprese Levi, Salomon, Oppenheim e Co. Le grandi banche americane, “Dillon Read & Co.”, “Kuhn Loeb”, “Lehman Brothers” e altre, con le quali il movimento sionista ha sempre avuto stretti rapporti, hanno dato un enorme aiuto finanziario ai monopolisti tedeschi e hanno facilitato l’avvento del fascismo al potere. Attualmente gli stessi interessi bancari sono di nuovo attivi nel contribuire alla rinascita dell’imperialismo predatorio tedesco».
Ma se a giungere a patti con i nazisti non ci pensarono i sionisti revisionisti, fu invece l’ala “moderata”-laburista del sionismo a sporcarsi le mani tramite quello che è diventato famoso come Accordo dell’Haavaraa: accordo che permise a migliaia di ebrei di stabilirsi in Palestina favorendo inoltre l’esportazione della Germania, che difatti divenne il secondo paese esportatore verso la Palestina dopo la Gran Bretagna, arginando in tal modo alcune conseguenze del boicottaggio antinazista del 1933.
Intransigenti oppositori dell’accordo furono proprio i sionisti revisionisti, che accusarono i laburisti di complottare per la fondazione di un regime arabo pro-comunista, svendendo al contempo gli ebrei ai nazisti.
Il rapporto fra nazisti e organizzazioni sioniste, assume in ogni caso contorni ancora più inquietanti alla luce della partecipazione di due esponenti nazisti (von Mildenstein nel 35′ e Eichmann nel 37′) rispettivamente al diciannovesimo e al ventesimo congresso sionista.
Più in generale questa reciproca apertura fu, in fin dei conti, il risultato di una sorta di psicopatia che caratterizzò il sionismo fin dai suoi albori; a titolo d’esempio Herzl affermerà: «il nostro benessere c’indebolisce, come Ebrei, e cancella tutte le nostre peculiarità; soltanto l’oppressione ci risospinge alla nostra stirpe»; attribuita a Ben Gurion, primo primo ministro di Israele, è invece la seguente citazione: «Se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto la metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione, perché noi non dobbiamo considerare soltanto il destino di quei bambini ma di tutto il popolo ebraico». In altre parole, forse l’oppressione nazista fu per taluni sionisti un male accettabile affinché i futuri ebrei potessero godere di una Patria in terra santa. Questa mentalità, tipicamente nazionalista borghese e niente affatto proletaria, tesa a porre gli interessi territoriali d’Israele come valore superiore, a discapito della solidarietà di classe entro i confini nazionali, fu a suo tempo già aspramente condannata da Lenin, il quale considerava di marca squisitamente reazionaria la mentalità da ghetto tipica del Bund e del sionismo, intenzionati ad erigere un muro fra gli ebrei come popolo e il resto del proletariato.


Il Sionismo come arma fondamentale dell’Imperialismo

Questo discorso ci conduce dunque a ricordare la funzione dell’Olocausto come mito fondativo dell’identità ebraica moderna, come scrive Anna Maria Cossiga nell’articolo “La memoria della shoah è il pilastro fondamentale dell’identità di ebrei e israeliani” pubblicato su Limes: «Ciò che vogliamo suggerire è che la memoria dell’Olocausto sia diventata un elemento «più fondamentale» di altri per l’identità ebraica contemporanea. Forse l’unico, in un momento storico altamente conflittuale per gli ebrei, siano essi diasporici o cittadini dello Stato d’Israele, a tenere unito un mondo ebraico in trasformazione».
La memoria della tragedia ebraica non agisce solo da collante delle diverse anime che compongo il mondo ebraico nella sua totalità, ma contribuisce altresì a generare una sorta di “immunità” che ha consentito ad Israele di perpetrare liberamente i propri crimini imperialistici, tanto in Medio Oriente quanto nel resto del pianeta, opponendosi spesso e volentieri ai movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo.
A partire dalla sua fondazione, infatti, Israele si è stabilmente associato al primo mondo imperialistico a guida americana, divenendo, come scritto dal già citato Mitin, un solido baluardo degli Stati Uniti nel Medio-oriente, parte integrante dei piani aggressivi contro l’Unione Sovietica e le nazioni a democrazia popolare.
L’iniziale supporto ad Israele da parte dell’URSS, finalizzato alla creazione di una nazione ebraica filo-sovietica o quantomeno neutrale, fu destinato a dissolversi dinanzi all’evidente funzione reazionaria che i sionisti stavano assumendo nei confronti del mondo socialista nel suo complesso. Iniziò dunque nelle nazioni poste sotto l’influenza sovietica una violenta repressione delle organizzazioni sioniste (ricordiamo ad esempio il Processo Slánský in Cecoslovacchia), viste sostanzialmente come una quinta colonna al servizio dell’Imperialismo occidentale (non ingiustificatamente, se consideriamo che furono proprio gli agenti del Mossad a ricevere per primi il discorso completo di Krushev contro Stalin, e a passarlo agli statunitensi).
In ogni caso per ottenere la completa soggezione della politica statunitense agli interessi del sionismo occorrerà aspettare molto tempo, tanto che ancora all’epoca della Guerra dei Sei Giorni gli Stati Uniti compresero la necessità di porsi ad arbitri super partes onde evitare che il mondo arabo si compattasse a sostegno dell’Unione Sovietica. Oggi che l’URSS è niente più che un lontano ricordo la politica statunitense nel Medio Oriente è caratterizzata dalla piena corrispondenza con gli interessi egemonici d’Israele nella regione.
I sionisti, mediante l’AIPAC, sono in grado di indirizzare la politica estera statunitense, come accaduto nel corso della guerra in Iraq: personaggi di spicco della politica americana quali Elliot Abrams, David Frum, Rahm Emanuel, Douglas Feith o Paul Wolfowitz (quest’ultimo anche teorico della Dottrina Wolfowitz, imperniata sulla necessità degli Stati Uniti di agire come unica potenza egemonia mondiale) furono i principali ispiratori e organizzatori della Guerra nel Golfo contro Saddam Hussein. Anche nelle guerre condotte dagli USA contro la Libia e la Siria gli interessi fondamentali di Israele sono ben evidenti, così come è evidente che il vero beneficiario dell’ostilità americana nei confronti dell’Iran è sempre lo Stato ebraico.
Ed è proprio attraverso questa contrapposizione fondamentale fra Israele e Iran che è possibile comprendere le complesse dinamiche del mondo medio-orientale: oggi come oggi è proprio la Repubblica Islamica a contendersi con Israele l’egemonia nella regione.
Questo scontro s’inserisce, a dire il vero, in un periodo di profonda crisi per lo Stato israeliano, sempre più fratturato dal conflitto fra quelle che il presidente Reuven Rivlin descrisse come le
quattro “tribù”: quella laica, quella religiosa, quella ultraortodossa e quella araba. La stessa incapacità dei servizi segreti israeliani di reagire prontamente all’attacco di Hamas è da imputare
anche ai conflitti d’interesse che coinvolgono il Mossad e lo Shin Bet.


La società israeliana è profondamente eterogenea, ed il grande interrogativo che bisognerebbe porsi è: l’inasprirsi del conflitto con le nazioni arabe rischia di esacerbare questa mutua diffidenza o
condurrà la società d’Israele a compattarsi maggiormente attorno ad un ethos condiviso?
Sicuramente l’attacco lanciato da Hamas non è casuale e s’inserisce in una precisa crisi della società israeliana; in un articolo firmato da Kobi Michael e Ori Wertman pubblicato su Limes leggiamo:
«Hamas è oggi la forza più importante e influente nel mondo palestinese. Si percepisce come alternativa al governo dell’Olp e agisce per destabilizzare l’Anp, presentandola come incapace di
tutelare gli interessi nazionali e di difendere il popolo dalle aggressioni israeliane. Vuole erigersi a protettore dell’opposizione armata, dei palestinesi e di Gerusalemme. Le sue direttrici d’influenza sono dunque cinque: Striscia di Gaza, Gerusalemme Est, Cisgiordania, arabi d’Israele e Libano meridionale. L’obiettivo è conseguire una posizione tale da poter aprire questi fronti simultaneamente, fino al giorno che segnerà il crollo definitivo di Israele attraverso una guerra di
logoramento che la sua società – considerata occidentale, divisa e dedita al benessere – sarà incapace di affrontare. (…) Iran, Hizbullah e Hamas interpretano tale subbuglio interno come la prova definitiva della «teoria della ragnatela» di Hasan Nasrallah, che afferma la debolezza della società israeliana e la sua probabile frammentazione. Si tratta di un’interpretazione errata, ma potrebbe accelerare le tempistiche di un attacco a Israele. I nemici potrebbero supporre che sia il momento giusto per trascinare il paese – già impegnato a gestire la conflittualità domestica – in una dolorosa guerra di logoramento per sancire la sua rovina».
Queste “profezie” oggi si stanno avverando, e se l’Iran deciderà di approfittarsi dell’apparente debolezza israeliana per attaccare allora il conflitto fra sionisti ed arabi potrebbe trasformarsi
rapidamente in un ulteriore tassello della guerra mondiale a mosaico, la quale ha attualmente i suoi punti caldi in Ucraina e recentemente in Armenia, ma che potrebbe potenzialmente coinvolgere altri attori come le due coree.
Quella in atto è una ribellione globale contro gli imperialisti statunitensi e i loro lacchè, tuttavia è una ribellione di carattere ancora nazionalista e borghese: in quasi nessun teatro i socialisti hanno un peso considerevole, il mondo è imbrigliato in un sistema di alleanze esplosivo che ricorda la prima guerra mondiale. Questa terribile conflagrazione potrebbe condurre a scenari molto diversi: il più improbabile è un ulteriore rafforzamento dell’egemonia americana sul pianeta, il più realistico è invece una ridefinizione delle sfere d’influenza mondiale che mettano fine all’anomalia
dell’unipolarismo, condizione d’eccezione e non di normalità in regime borghese.


Lo scenario più auspicabile è tuttavia l’apertura di una nuova fase di rivoluzioni socialiste, che difficilmente potrà avere come epicentro il primo mondo imperialistico, dove i processi di terziarizzazione hanno fondamentalmente eliminato la classe operaia. Il ceto medio che attualmente domina nei paesi a regime borghese è una classe ondivaga, che difficilmente è disposta ad assumere la prospettiva del proletariato.
Tuttavia l’esperienza storica ci ha dimostrato che, in determinate condizioni, è assolutamente possibile che la rivoluzione trionfi in assenza di una base sociale maggioritaria di tipo proletario, purché la base piccolo-borghese sia disposta ad assumere, appunto, una Weltanschauung proletaria.
L’estendersi del conflitto potrebbe mettere seriamente in crisi i meccanismi tradizionali della democrazia borghese aprendo la strada ad un vuoto di potere potenzialmente occupabile dai socialisti, purché essi riescano a farsi portavoce degli interessi delle grandi masse popolari non strettamente proletarie.
Tutto ciò sarà possibile unicamente mediante un’organizzazione unificata e organizzata dell’opposizione anti-borghese, dotata di una precisa coscienza dei doveri assoluti del dominio statale: «Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l’integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza strage interna il popolo. L’entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto anche solo in un villaggio di cento abitanti». (Gramsci)
La sconfitta di Israele e del sionismo potrebbe contribuire a spezzare uno degli anelli fondamentali del mondo imperialista che attualmente tiene sotto scacco i popoli dell’Europa, costituendo altresì una vittoria fondamentale dei popoli in rivolta contro l’Imperialismo.
Se oggi il Medio Oriente non è altro che un cumulo di macerie, distruzione e sangue, la colpa è esclusivamente dell’imperialismo e del sionismo, nemici della libertà e della sovranità dei popoli.