Di Giovanni Amicarella
Uno degli errori più grossi nell’analisi ideologica sta nel mescolare, o addirittura sovrapporre, due concetti che su carta possono richiamarsi, ma sono del tutto opposti nella prassi.
Internazionalismo e cosmopolitismo, uno un fenomeno proletario che vorrebbe vedere cancellati a livello internazionale capitalismo, usura, sionismo e molti altri fenomeni, l’altro il modus vivendi della borghesia e che più si riscontra nella finanza e speculazione.
Il lavoratore ha una patria, l’investitore no. I fenomeni meramente legati ad interesse economico cercano di fingersi internazionali, ma finiscono a non avere alcuna realtà proletaria di riferimento, rimanendo distanziati abbastanza lontani per poter allungare giusto giusto le mani per arraffare denaro dalle tasche.
I movimenti che proclamano il cosmopolitismo stanno sempre più accusando colpi, e non è casuale. Perché mai qualcuno dovrebbe sentirsi liberato a non avere diritto ad una terra? Non si può essere cosmopoliti ed appoggiare la lotta palestinese, a patto che non si voglia diventare una contraddizione ambulante. Non si può volere una Cuba libera da sanzioni, allo stesso modo.
Le radici ideologiche del cosmopolitismo, quello che ritiene il lavoratore privo di patria, non sono in alcun modo riscontrabili in sfera socialista: né in testi sindacalisti, né in quelli nazionalbolscevichi, né tantomeno nel marxismo stesso in cui anzi il cosmopolitismo viene pesantemente cannoneggiato ed osteggiato, perché è vero che viene detto che i proletari non hanno una patria, ma la frase dopo che viene spesso saltata dai più moderati, spiega che devono rendere la propria come tale conquistandosi il dominio politico, diventando loro la classe nazionale.